Furtovoltaico a Narbolia

1 Dicembre 2012
Paola Pilisio
La storia si ripete, ogni giorno è buono per  scoprire che c’è una nuova multinazionale  pronta a fare energia rinnovabile, una centrale a biomasse, eolica, a biogas, un fotovoltaico, un termodinamico, una serra fotovoltaica e ancora e ancora. C’è sempre un consiglio comunale più o meno ignavo, di destra, di sinistra o di centro non importa, pronto a dare le terre richieste, senza consultare la popolazione. Ci sono sempre i sindacati a  dare il loro benestare, la stampa a raccontare fantasiose e meravigliose  prospettive e, in alcuni casi, associazioni ambientaliste e pure la Chiesa a benedire. Per fortuna ogni giorno è buono anche per farne un’altra di scoperta, un nuovo comitato che si crea, una nuova comunità che prende forma, un nuovo mondo che non ci sta e si ribella, s’informa, va in fondo alle cose, resiste, si batte e, in alcuni casi, vince. Pensavamo che la storia del disastro dagli insediamenti industriali e militari degli anni 60 non si potesse più ripresentare. Allora non si sapeva, oggi si sa, tutto sembra ripetersi come negli incubi ricorrenti. Ti dicono che è green economy, energia verde, chimica pulita e che il tutto non solo è sostenibile, ma porta lavoro. Peccato che leggendo, certe cose basta leggerle nemmeno studiarle, si scopre immediatamente che sono truffe ai danni della popolazione. Un esempio fra mille: Narbolia, un paese di 1800 abitanti ai piedi del massiccio del Montiferru, che i Mori tentarono  di invadere nel 1623.  Oggi, seicento anni dopo i narboliesi tentano di difendersi dall’invasione della cinese Win Sun che sta realizzando un impianto di proporzioni tali da creare un grave danno ambientale, paesaggistico, sociale ed economico per tutta la comunità. Esso é uno dei più grossi in Italia con i suoi 27 mW prodotti da 107.000 pannelli installati su 1614 serre da 200 mq ciascuna, costruite su 64 ettari dove per il sostegno delle stesse sono stati impiantati 33.300 plinti da un mc di cemento armato, che vuol dire quasi 3 ettari e mezzo di cemento armato piantato nei migliori terreni agricoli, irrigui di Narbolia.
Un così imponente progetto, il più grande in Sardegna, è di carattere puramente industriale e non agricolo; non esiste un credibile piano agronomico che dimostri la prevalenza agricola dell’intera operazione.
Il profitto della società Win Sun di Hong Kong, con la sua controllata Win Sun Luxembourg,  proviene infatti dagli incentivi statali, che corrispondono a più di 7 milioni di euro all’anno, per 20 anni e quasi 3 milioni e mezzo di euro per la vendita della corrente prodotta annualmente, sempre per 20 anni. Pietro Porcedda del comitato “S’Arrieddu per Narbolia” spiega che “la questione è complessa,  queste serre sono esposte a est in modo da prendere il sole tutto il giorno, mettendo inevitabilmente all’ombra la serra e sacrificando  la produzione agricola che si avrebbe se questi campi fossero liberi.  Alla fine dei conti, questa è una produzione al 90%  energetica, guarda caso il tutto è ben collocato a una giusta vicinanza dalla centrale dell’Enel  e solo il restante 10% è produzione agricola. Non siamo contrari al fotovoltaico e alle energie alternative; siamo d’accordissimo, ma non ad ogni costo e non in situazioni di evidenti speculazioni finanziarie. ” Ma i conti tornano per i cinesi, come tornerebbero  se a sfruttare la centrale fosse gente di Oristano, Cagliari o di Belluno poiché ruota intorno a una produzione di energia incentrata sui certificati  verdi che garantiscono tanti bei soldini. Poi un giorno, perché tanto prima o poi succederà, gli incentivi non ci saranno più le serre fotovoltaiche verranno abbandonate al loro destino, lasciando alla popolazione di Narbolia tanto vetro ferro cemento da smaltire e terre in coma. Purtroppo la Sardegna, “grazie” anche al Patto delle Isole è stata inserita come unica regione italiana per la definizione di un approccio innovativo con cui “aggredire” le criticità delle isole europee in materia di politica energetica, perciò si trova oggi ad essere sotto assedio. Si direbbe il ripetersi di storie antiche, ma un vento nuovo tira in Sardegna. C’è  da per tutto un pullulare di comitati che vengono  a dare vigore  a realtà piccole e grandi perché facciano loro i loro luoghi. Nelle piccole  comunità come Narbolia le cose possono andare veloci, o Arborea dove si è formato il comitato No al Progetto Eleonora contro le trivellazioni della Saras nelle zone umide,  gli abitanti di Cossoine  che hanno detto No al Termodinamico della Energo Green  e ancora gli storici comitati di Macomer e Quirra di Non Bruciamoci il Futuro e Gettiamo le Basi. Nelle città come Sassari o Porto Torres, la presa di coscienza può essere più lenta e gli ostacoli più importanti, ma il movimento è ineluttabile. L’idea di sovranità alimentare, essenziale in una regione come la Sardegna, comincia a fare qualche passo, l’idea che non esiste solo il lavoro industriale sta facendo la sua strada, così come diventa sempre meno sostenibile l’idea disperata e suicidaria che in nome di un salario si possa attentare alla salute propria e a quella degli altri. Attraverso la crisi e la disoccupazione, un nuovo modo di vivere si fa giorno, una comprensione maggiore della fragilità  dei luoghi della nostra vita  emerge, un bisogno di comunità s’impone, calorosa e responsabile.

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