20 ottobre. Per un lavoro stabile

1 Settembre 2007

Loris Campetti

Sarà un autunno caldo. Non c’è agosto, da trentotto anni a questa parte, in cui qualcuno nei meandri della politica non minacci il profilarsi di scure nubi all’orizzonte, come in quel lontano 1969, ai tempi della lotta di classe. Anno dopo anno, invece, è arrivato l’autunno, è naturalmente passato senza mai ribaltare lo stato di cose esistenti per poi lasciare il campo all’inverno e avanti così, di stagione in stagione. Perché quest’anno le cose dovrebbero andare diversamente? Proprio quest’anno, con un governo “amico” dei sindacati e dei lavoratori? Quel che succederà in autunno lo scopriremo già a settembre, quando sapremo se le nubi che minacciano il centrosinistra italiano si dissiperanno o, al contrario, scateneranno furiosi temporali sulla penisola e le isole maggiori.
In un contesto reso conflittuale dalle ultime due leggi del “governo amico” sulle pensioni e sul welfare e la precarietà del lavoro, oltre otto milioni di lavoratori scenderanno in sciopero per rinnovare il contratto nazionale scaduto, in qualche caso da anni, oppure in scadenza. Metalmeccanici in primis, due milioni di lavoratori le cui lotte dal lontano autunno caldo del ‘69 hanno assunto valore politico e generale. Seguono a ruota gli statali, gli addetti al commercio, alle pulizie, alle comunicazioni, bancari, ferrovieri. Persino i giornalisti attendono da due anni il rinnovo del contratto: più di 10 giorni di sciopero in tutti i media non hanno scalfito la prepotenza degli editori che pretendono di formalizzare nelle redazioni una deregulation che le sta rendendo sempre più simili ai cantieri navali, dove imperano lavoro nero e precario, appalti e subappalti, frantumando e svalorizzando il lavoro giornalistico. Sarà una battaglia dura per tutti i lavoratori dipendenti, costretti a fronteggiare un padronato determinato a cancellare nella sostanza l’istituto stesso del primo livello contrattuale, quello nazionale di categoria, e a precarizzare ulteriormente il lavoro sempre più inteso come pura variabile dipendente del capitale, sottoposto all’unica legge del mercato.
Il Partito democratico ha iniziato la sua corsa e già prima del battesimo delle primarie che eleggeranno a leader il sindaco di Roma Walter Veltroni, la nuova organizzazione politica nata dalla dissoluzione dei Ds e della Margherita dovrà vedersela con il conflitto politico interno alla maggioranza che essa stessa ha provocato. Alle speranze che la parte più debole della società – lavoratori dipendenti, precari, pensionati – aveva riposto nella sconfitta elettorale di Berlusconi e delle destre, il governo Prodi non ha voluto corrispondere atti concreti, capaci di segnalare un’inversione di tendenza: nessuna redistribuzione della ricchezza che i governi precedenti avevano spostato dai salari ai profitti e alle rendite. Al contrario, gli ultimi due atti del governo obbediscono agli input della Confindustria e degli organismi internazionali, Fmi e Bce. Il primo ha per titolo la riforma delle pensioni. Nel programma dell’Unione c’era l’impegno a cancellare lo “scalone” di Maroni che alzava in un giorno l’età pensionabile, per chi avesse raccolto almeno 35 anni di contributi, da 57 a 60 anni. Con la nuova legge il furto berlusconiano non è stato cancellato ma rateizzato in un arco di tempo un po’ più lungo ma, al tempo stesso, l’età pensionabile salirà progressivamente a 62 anni. Viene così colpita la generazione di lavoratori entrati in fabbrica a 15, 16, 17 anni, costretti a restare al chiodo finché non avranno accumulato 40 anni di contributi. Ciò non aiuterà certo i giovani, in nome dei quali si sostiene di aver dovuto penalizzare i più anziani, a entrare in un mondo del lavoro chiuso a guscio. Persino la pensione di vecchiaia, 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, rischia di essere allungata di qualche mese attraverso il meccanismo delle finestre d’uscita. A sanatoria di questa ingiustizia è stata stilata una lista di lavori usuranti per garantire a un certo numero di “usurati” l’andata in pensione secondo le norme precedenti l’introduzione della Maroni, cioè a 57 anni di età e 35 di contributi. Peccato che i “fortunati” non saranno che poche migliaia l’anno.
Il secondo atto estivo del governo Prodi riguarda la (contro)riforma del welfare. Il programma dell’Unione, anche in questo caso, prevedeva il superamento della berlusconiana legge 30 che frantuma il lavoro in una cinquantina di forme contrattuali diverse. Solo alcune delle forme più indecenti (job on call, per esempio) sono state cancellate, mentre resta lo staff leasing, nient’altro che l’affitto di intere squadre di lavoro per il tempo e le condizioni decise dall’azienda acquirente. C’è di peggio. Il contratto a termine potrà essere rinnovato per ben 36 mesi e neanche continuativi, dopo di che sarà sufficiente che un qualsivoglia sindacalista si presenti con il lavoratore all’ufficio del lavoro per prolungare ulteriormente lo stato di precarietà della vittima. Ultima chicca, lo sgravio fiscale del lavoro straordinario che costerà all’impresa non una lira in più del lavoro ordinario, con le prevedibili conseguenze sociali.
Il risultato di queste due leggi imposte dal nascente Partito democratico è devastante per la sinistra sociale e politica. Il più grande sindacato italiano, la Cgil, si sta dividendo tra un gruppo dirigente in maggioranza disposto a ingoiare l’amara pillola per salvare il “governo amico” e una base inferocita, o peggio ancora sfiduciata. Basta girare nelle fabbriche e più in generale nei posti di lavoro per sentirsi ripetere: “sono tutti uguali”, quando non “allora meglio Berlusconi che almeno non fa pagare le tasse”. Il colpo di grazia alla credibilità del centrosinistra è arrivato con la pretesa di rinviare ancora l’aumento della tassazione della rendita finanziaria dal 12,5% al 20%, comunque molto meno della quota che grava sui salari. Se si andasse a votare domani l’astensione salirebbe alle stelle nelle fasce più povere della popolazione. Anche perché i tesoretti che via via escono dal cappello del ministro Padoa Schioppa – l’uomo nero –, frutto del recupero di una piccola parte dell’evasione fiscale, vengono destinati al risanamento del debito pubblico, ai regali alle aziende con i tagli del cuneo fiscale e non al welfare e ai salari.
Questa svolta politica spacca la coalizione di centrosinistra. Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e gran parte di Sinistra democratica chiedono di rivedere i punti più contestati delle nuove leggi prima della Finanziaria, facendo ventilare una crisi di governo qualora non si riaggiustasse la linea politica dell’esecutivo. Per questo stanno crescendo le adesioni alla grande manifestazione convocata da un folto gruppo di intellettuali di sinistra e lanciata dai quotidiani “il manifesto” e “Liberazione” per il 20 ottobre, una settimana dopo le primarie che consacreranno il sindaco di Roma alla guida del Partito democratico. Non sarà una manifestazione per affossare il governo ma per dagli una possibilità di resistere, ricostruendo il rapporto spezzato con la sua base. Se il governo cadrà, sarà per colpa della destra interna e non certo di una sinistra che di bocconi amari ne ha ingoiati forse troppi. Lo ammette anche il ministro degli affari sociali, il rifondarolo Paolo Ferrero: “Noi abbiamo vinto le elezioni ma la nostra gente ha perso”.
Precarietà, pensioni, ricerca scientifica, ambiente e modello di sviluppo, beni comuni, pacifismo, lotta senza quartiere all’evasione fiscale, laicità e autonomia dello stato dai poteri forti (economici, finanziari, religiosi) e dal pensiero unico di marca americana sono i titoli dell’appuntamento del 20 ottobre. I cittadini sardi, più ancora di tutti gli altri italiani, dovrebbero capire al volo i nessi che tengono insieme queste tematiche apparentemente diverse ma che costituiscono l’ossatura della vita precaria della maggioranza delle persone. Basti pensare al minacciato G8 alla Maddalena e al modello sociale, economico, culturale, geopolitico che lo arma.

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