Un’idea di città

16 Settembre 2011

Cagliari

Alfonso Stiglitz

Cagliari è una città sul mare, nel senso pieno del termine; si snoda da Sant’Elia a Sant’Avendrace seguendo l’andamento della costa, affacciandosi su di essa secondo l’andamento dei colli, parallelo allo specchio d’acqua. E, anzi, questa normalità fisica tra colli e costa ne ha determinato il disegno urbanistico.
Possiamo anche dire che il nome stesso della città, l’originario Krly inciso nelle iscrizioni puniche che i suoi magistrati dedicavano nel tempio di Antas (Fluminimaggiore), deriva da questo stretto rapporto con il mare; se il significato del nome è “mucchio di sassi” potremo pensare che la traduzione effettiva possa essere “promontorio”, cioè ammasso roccioso che si protende dentro il mare.
Non è un caso che i più antichi cagliaritani si siano stabiliti ottomila anni fa in punta al promontorio, nella Sella del Diavolo. E non è un caso se la battaglia finale tra gli angeli e i diavoli sia avvenuta nello specchio di mare antistante Cagliari, con l’inabissamento di Lucifero, la cui tenebrosa voce può essere udita sul promontorio nella cavità detta, appunto, “de su tiàulu”, in realtà una cisterna punico-romana.
Ma Cagliari è anche una città sul mare nel senso letterale del termine, parti importanti di essa sono state realizzate guadagnando spazio marino, secondo un’antica volontà dell’uomo di voler dominare gli elementi, assoggettandoli ai propri interessi, nell’illusione di vincere la paura dell’altrove. Interi quartieri sono stati costruiti colmando antichi golfi. Sant’Elia nuovo ad esempio; al suo posto, ancora nella prima parte del ‘900, c’era uno specchio di mare e le saline di San Bartolomeo; pitture settecentesche con Sant’Efisio che difende la città dai francesi, fede rassicurante contro ragione giacobina, mostrano le navi alla fonda tra via Schiavazzi e lo stadio Ampsicora. Viale Colombo nasce da quel riempimento e le macchine sfrecciano, oggi, dove, ieri, transitavano le navi dirette al Portus salis, il porto del sale. Il Banco di Sardegna colosso del credito sardo affonda le proprie fondazioni nell’acqua, anche se non sembra risentirne, apparentemente. La via Roma poi è praticamente tutta sul mare, la spiaggia passava, infatti, all’altezza dei portici per poi girare verso viale la Playa.
E il rapporto di Cagliari con il mare è un rapporto stretto, in un abbraccio talmente forte da renderlo inestricabile; è un rapporto odoroso, quando le brezze sollevate dall’incontro tra il sole e l’acqua raggiungono le case e visivo, negli scorci delle sue case, nei quartieri storici, ma anche nel volgergli la schiena come avviene nei quartieri più moderni un po’ ghetto, Sant’Elia, o vittime di voraci imprenditori, Sant’Avendrace.
Per questo Cagliari è una città solare, con le sue bianche torri. Per questo quando si pianifica urbanisticamente e si progettano interventi che vanno a incidere sul tessuto stesso della città colpisce l’assenza di una visione della natura del centro abitato, della sua storia e della sua vita. Una furia, quasi; gestita dalla volontà di cancellare la solarità, la visibilità, la riconoscibilità e la riconoscenza che ognuno di noi ha, o dovrebbe avere, per i propri spazi. Torri moderne, assetate di volumi più che di disegno architettonico, che rinchiudono, ingabbiano e decidono della vita dei cittadini, del sole e dell’ombra, come accade in via Santa Gilla. Oppure a Tuvixeddu-Tuvumannu che da Sant’Avendrace a via Is Maglias viene pian piano rinchiuso senza soluzione di continuità da una fila continua di palazzoni, quasi a esorcizzare i nostri morti, con la paura che possano chiederci conto dell’indifferenza. Cagliari è sempre più una città da non vedere, da nascondere, da rendere priva di spazi pubblici aperti verso il mare.
Per questo, e qui la ragione di questo testo, penso che l’idea di una metropolitana sotterranea sia un’idea non solo scellerata dal punto di vista dei costi, per il suo passaggio praticamente in mare, con tutti i problemi realizzativi che questo comporterà; ma soprattutto per quel suo voler portare via la gente dalla superficie, dal sole, dal mare, dal moltiplicarsi di volti, di facciate, di scorci, per rinchiuderla in una triste notte, come topi che si vergognano di comparire in superficie alla luce del giorno e preferiscono attraversare le viscere della città. Un progetto che spinge all’indifferenza, all’immergersi nel buio per riemergere a destinazione, giusto il tempo per infilarsi in una casa, in un ufficio, in un altro spazio chiuso. Eppure Cagliari ha avuto un antesignano, lungimirante mezzo non diverso dalla metropolitana, il tram. Abbandonato troppo presto per una motorizzazione modernista, priva di sbocco. Un tram sempre presente, non solo nelle foto d’epoca, parte integrante del paesaggio, ma fisicamente con le rotaie che ancora qui e là compaiono.
Ritornare indietro per andare avanti, riprendere una ottima vecchia soluzione, con nuovi mezzi, per ricostruire un rapporto diretto con lo spazio urbano e con il suo entroterra e, perché no, trasformare i topi in esseri umani solari. In fin dei conti ci vuole poco, un idea di città.

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