Il conto alle donne

16 Settembre 2011

Inps donne

Manuela Scroccu

“In relazione alle notizie di agenzia riguardanti interventi in materia previdenziale – in particolare per quanto concerne l’eta’ pensionabile delle donne nel settore privato – si precisa che le ipotesi indicate sono semplicemente infondate”. Era perentorio il ministro Sacconi, in una nota del ministero del Lavoro ripresa da Il Sole 24 Ore del 28 giugno scorso. E infatti, con l’andatura marziale di un ballerino di breakdance alle prime armi – credo che neanche Tremonti si ricordi esattamente quale sia la versione definitiva della manovra – il governo ha predisposto la misura che prevede l’aumento graduale dell’età di pensionamento delle donne nel settore privato, la quale partirà dal 2014.
Che questo sia un paese retto da un governo che non ama e non rispetta le donne, abbiamo avuto modo di costatarlo in diverse occasioni. Se ci fossero stati ancora dei dubbi sul ruolo che la nostra classe dirigente assegna alle donne nella società – cioè il gradino più basso o, al limite, appese al palo della lap dance – le ultime prestazioni “barzellettifere” del Ministro Sacconi (quello che non voleva intervenire sull’età pensionabile delle donne) in risposta alle giuste preoccupazioni espresse dalla Camusso sulla manovra finanziaria, dovrebbero almeno aver contribuito a schiarire le idee ai più irriducibili scettici.
In nessun altro Paese del mondo democratico, come ha tristemente notato il comitato Se non ora quando un esponente di governo sceglierebbe la metafora dello stupro – inconciliabile con qualunque forma d’ironia – per esprimere una sua valutazione politica. O meglio, in nessun paese democratico un esponente del governo potrebbe fare una cosa del genere e rimanere ancora al governo.
Una manovra finanziaria, questa, senza alcun elemento di equità e senza meccanismi efficaci di ripresa economica che, lungi dal traghettarci verso un porto sicuro e acque più calme, sta avendo il solo risultato di trasmettere un profondo senso di confusione, rischiando di provocare una forte diffidenza in Europa. Soprattutto in un paese a forte rischio recessione.
Il rapporto annuale Istat, che il governo e l’attuale maggioranza dovrebbero conoscere visto che viene presentato ogni anno a Montecitorio, ha fotografato un Paese sull’orlo del precipizio.
I dati sono implacabili: nel decennio 2001-2010 l’Italia ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i paesi dell’Unione europea. In questo quadro, circa un quarto degli italiani (il 24,7% della popolazione, più o meno 15 milioni) è a rischio di povertà o esclusione sociale. Non è difficile rendersi conto di quali siano state le categorie colpite con maggior durezza dalla crisi: i giovani e le donne. I primi hanno perso mezzo milione di posti di lavoro in due anni mentre il quadro sulla condizione femminile continua a rimanere sconfortante.
La qualità del lavoro è peggiorata e la disparità salariale rispetto ai colleghi uomini è pari al 20%. Sempre più donne, con l’arrivo di un figlio, sono costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o comunque “messe nelle condizioni di doversi dimettere”. E nonostante questo, proprio alle donne si stanno chiedendo i sacrifici maggiori, ironia della sorte proprio da parte di un governo che come nessun altro le ha umiliate, costringendole a scendere in piazza per rivendicare la propria dignità.
Se l’equiparazione dell’età pensionabile non deve essere un tabù e anche vero che, allo stesso modo, non deve essere taciuto il fatto che le donne italiane siano, in Europa, non solo le meno pagate e riconosciute ma anche le meno rispettate.
Altrimenti diciamo una mezza verità e qualcuno può persino convincersi che la differenza dell’età pensionabile sia un residuo e ingiusto privilegio, come l’aragosta a due euro della buvette, e non lo specchio di un divario di genere che non accenna a colmarsi.
E non solo di pensioni si tratta: chi colpirà maggiormente l’art. 8 che cancella, di fatto, le tutele previste dai contratti nazionali e dall’articolo 18 se non le lavoratrici con stipendi sempre più bassi rispetto agli uomini? Chi si accollerà i tagli ai comuni e agli enti locali se non le donne sulle cui spalle si scarica ormai da tempo il peso di un welfare insufficiente, se non addirittura inesistente?
Siamo un paese in cui i disagi per la cronica assenza di asili e servizi per l’infanzia sono tamponati da un esercito di “mammezienonne” che funzionano anche da dispensatrici di microcredito per figlie precarie pagate, in media, 27 euro meno di quanto guadagna un uomo. E ci sono poi le “mammefigliesorellenipoti” che prestano la loro attività di cura e assistenza ai parenti anziani o ammalati.
Non so se questa manovra sia una vendetta volta a colpire le donne per punire la loro mobilitazione di quest’anno, come si legge in molti blog. Certo è che lo straordinario impegno del movimento Se non ora quando, decisivo nel far venire alla luce la crisi di consensi di questa maggioranza, ha avuto al centro della sua mobilitazione non solo la difesa della dignità delle donne ma soprattutto la necessità di una riforma del welfare e della nostra economia. Inutile dire che la manovra si muove in direzione decisamente contraria. Bisognerà tornare a gridarlo più forte, nelle piazze, che non si costruisce il benessere di una società se non si migliora la condizione di vita delle donne e, soprattutto, che non siamo più disposte a fare l’ammortizzatore sociale “gratis”.

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