Mangiar sano in carestia

16 Ottobre 2011

Piero Careddu

Le piantagioni dell’utopia. Si racconta che l’ultimo governante dichiaratamente stalinista, il presidente della Repubblica Popolare d’Albania Enver Hoxha, avesse confessato a dei suoi collaboratori: “Auguro al mio popolo di non avere mai la sventura di conoscere lo champagne. Io da quando l’ho incontrato non posso più fare a meno di questa bevanda capitalista”.
Ho utilizzato questo aneddoto, che sarebbe potuto risultare divertente se il protagonista non fosse stato un tiranno, per introdurre l’articolo che vorrebbe trattare del consumo di “cose buone e sane” in questo momento di drammatica decadenza economica e morale. Ci sono persone amiche che storcendo il naso mi chiedono come faccio a scrivere di eccellenze enogastronomiche con la povertà diffusa che non risparmia ormai nessuna latitudine. E’ vero che quel poco di biologico che si riesce a rimediare con fatica costa di più della massa di cibo avvelenato che acquistiamo e con la quale, per pigrizia, fretta e ignoranza, siamo costretti a nutrirci quotidianamente. E’ anche vero che una bottiglia di vino prodotto senza aiuti chimici e da una vigna viva e non trattata ha un costo mediamente superiore a quello di uno convenzionale. Ed è una realtà, ultima ma non meno importante, che anche quella del biologico si sta da tempo trasformando in una tendenza, con un’offerta piuttosto aggressiva e soprattutto poco controllata.
Oggi avere una certificazione bio non è un’impresa titanica e gli organismi preposti ai controlli sono pochi e non riescono a coprire tutto il territorio nazionale, pertanto avere la certezza che un prodotto sia realmente naturale, aldilà di quello che dichiara l’etichetta , non è facile. Tant’è che molti produttori che hanno avuto la certificazione, e che lavorano seriamente, spesso rinunciano a dichiararla per non confondersi con la massa emergente di quei “convertiti dell’ultim’ora” al biologico che ne hanno subodorato il businnes.
CHE FARE?
Come fare allora a raccontare all’operaio e a sua moglie, che con un reddito di 1000 euro e due figli devono fare alchimie per arrivare alla fine del mese, che mangiare conservato e chimico fa male al corpo e alla mente? Come fare a spiegargli che è giusto che il pomodoro sano del contadino, il vino pulito del produttore biodinamico, la bistecca dell’allevatore rispettoso dell’ambiente e degli animali, non possono costare quanto carne, vino, frutta avvelenati che compriamo della grande distribuzione?
E c’è da dire che le risposte sono di una semplicità disarmante: chi fa la scelta coraggiosa di produrre cibo rispettando l’ambiente e la salute di chi glielo acquisterà si espone, non essendo i suoi prodotti “protetti” da fitofarmaci, a rischi enormi e a percentuali di scarto importanti e ha bisogno di un apporto maggiore in termini di manodopera: tutto questo aumenta inevitabilmente i costi e, unito a una rete di distribuzione schizofrenica, non può non riflettersi sul prezzo finale. Eppure in qualche modo dobbiamo uscire da questo circolo vizioso perché, come ho avuto modo di affermare in un articolo precedente, la catena subdola che si è formata all’interno di questo sistema liberista malato è profitto=superproduzione=chimica=sottosuolo e acqua avvelenati=emissioni=cibi malati.
L’unica via d’uscita è di una difficoltà spaventosa ma da tentare senza perdere un minuto di più: provare a cambiare lentamente stile di vita. Siccome non è da questi rozzi governanti che possiamo aspettarci dei segnali di inversione di tendenza, credo che tocchi a noi che abbiamo una visione della società e della vita stessa proiettate in altro modo, lavorare intanto per cambiare le nostre pessime abitudini e poi per fare un diffuso e paziente lavoro di educazione alimentare e ambientalista.
Quella che una volta chiamavamo fase di transizione passa anche attraverso il bere meno vino e solo di qualità, ingurgitare meno cibo e solo sano, muoversi meno in automobile e riprendere l’abitudine ad andare a cercarci le cose buone da mangiare, fuori porta. Solo applicando queste poche prime regole possiamo abbattere i costi della vita quotidiana, migliorandone radicalmente la qualità a noi e ai nostri figli.
Non è riempiendoci le buste di porcherie nei supermercati low-cost che risolviamo i problemi della sopravvivenza: eliminando le bibite gasate, i dolciumi carichi di grassi idrogenati, le carni gonfie di antibiotici scopriremo con stupore che riprendere a farsi da mangiare semplice e sano a casa è possibile.
E spenderemo meno in medicinali…
Non dimentichiamo che l’ obesità infantile, con tutte le gravi patologie che porta con sé, ha una percentuale di diffusione nettamente superiore fra le fasce di popolazione più disagiate. Si tratta di capire che praticare la cucina “vera” di casa, farsi le torte per la colazione, tirare una sfoglia per fare un po’ di pasta fresca è un gesto d’amore verso noi stessi e le persone che ci circondano. Riscoprire la ritualità dello stare a tavola, ricostruendo rapporti, ritrovando il piacere della conversazione. Il tutto possibilmente con la televisione spenta. Non è un utopia.

3 Commenti a “Mangiar sano in carestia”

  1. Ray Accardi scrive:

    Quello che hai scritto è di grande saggezza e non implica un grande sacrificio e se ne trae un grande benessere non solo fisicamente ma anche mentalmente; infatti, mens sana in corpore sano penso che si scriva cosi’ .ciao Piero!

  2. Daniela Delogu scrive:

    “Siccome non è da questi rozzi governanti che possiamo aspettarci dei segnali di inversione di tendenza, credo che TOCCHI A NOI che abbiamo una visione della società e della vita stessa proiettate in altro modo, lavorare intanto per cambiare le nostre pessime abitudini e poi per fare un diffuso e paziente lavoro di educazione alimentare e ambientalista.”

    Piero questa frase è la chiave per risolvere molte brutture della società in cui viviamo.
    Chi è convinto che questi ed altri colportamenti sani siano la soluzione deve agire per primo, su questo non ho dubbi.
    In questo post hai saputo riassumere con poche e ben dosate parole dei concetti in cui credo fermamente.
    Sta a noi tutto il resto. E’ un piccolo seme che va disperso nella terra e da cui cresceranno piante che fioriranno e daranno altri semi. La strada è lunga e difficile ma percorrerla è bello.
    Grazie.

  3. Tommaso Sussarello scrive:

    Piero, sai bene quanto condivido quello che scrivi. Per me sei stato un maestro di coerenza e lo ricordo spesso quando mi fermo a riflettere prima di un atto gastronomico. I cambiamenti non avvengono improvvisamente, e non riguardano tutti allo stesso modo. Mi accorgo però che il germe della sensibilità alimentare miete sempre più vittime, e siamo ogni giorno più attenti a come ci alimentiamo. E’ stato facile far accettare alla più piccola delle mie figlie un pezzo di Fiore Sardo in luogo del Formaggino Mio. Ho imparato che il “Gusto” è un momento dinamico, ma che si stratifica ogni giorno. Ritornare ai sapori degli anni 60, ai formaggi “del pastore”, al pane con lievito acido, alla frutta tanto ammaccata quanto profumata sarà un processo meno lungo di quanto immaginiamo, ma, ne sono certo, obbligato!

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