De pastoribus 1

16 Ottobre 2011

Natalino Piras

Dieci anni fa, scriveva l’antropologo Angioni in “Pane e formaggio e altre cose di Sardegna” , che il paesaggio agro-pastorale contava un patrimonio di 4 milioni di pecore (il 35% degli ovini italiani, 25 mila addetti alla pastorizia su 70 mila addetti all’agricoltura). Circa 1 milione e 600 mila abitanti. Oggi, dice Margherita Denti in “Apologia di un pastore in via di estinzione” nel foglio gratuito “Millo”, ottobre 2001: “In Sardegna la zootecnia ovicaprina è costituita da circa 17 mila allevamenti. La sua incidenza sulla PLV (Produzione lorda vendibile) agricola regionale è del 25% circa, cioè il 45 % del peso dell’intero settore zootecnico”. Il latte, ai pastori -produttori lo pagano 60 centesimi al litro, una miseria, quando un chilo di formaggio si vende minimo 12 euro.
Per questo si muovono i pastori. Fanno movimento, richiamano opinione. C’è chi dice che solo l’interesse li muova. Solo categoria assistita? Identità in perdita, i nostri pastores? Sono passati 40 anni dal 1971, da quando, tornando dalla leva, nella littorina Macomer-Nuoro, qualcuno canticchiava a sfottò, imitando un motivo dell’ Equipe 84 allora in voga: “Torno a casa, c’è la legge Cipolla”. In quel settembre era stata varata la legge De-Marzi Cipolla. Una revisione dei patti agrari e di affitto dei fondi rustici: quanto tra il 1820 e il 1851 era stata “una rivoluzione agraria borghese ad ispirazione governativa”. (Gian Giacomo Ortu, I contratti agrari e pastorali, “La Sardegna”, 1988). Ci fu nel 1820 la legge delle Chiudende, “tancas fattas a muru/ fattas a s’afferra afferra”. I moti che seguirono, compreso quello nuorese de Su Connottu, nel 1868, hanno lasciato meno tracce delle proprietà rimaste: ché la terra, ancora oggi 2011, mica è di chi la lavora.
La terra e i pascoli. In una prospettica storiografica bisogna guardare ai fatti, alla loro frammentazione in un vasto territorio. Isolamento, solitudine, egoismo pastorale sono una costante sarda da millenni.
C’è sempre un nord che domina rispetto a un sud. Pastori ricchi e no. Ma in questa storia ci sono pure terre occupate e altri episodi importanti. Segno che il cuore monolite del pastoralismo, quello del tempo fermo, è suscettibile di infiltrazioni. Tra le date significative: 1-3 maggio 1944, a Oniferi (Nu) i pastori occupano i pascoli ex demaniali passati ai privati. Intervengono carabinieri e polizia. Un morto e numerosi feriti.
Pastori poveri, certo. Il 7 marzo del 1945, in terre non pastorali, nell’Iglesiente minerario il primo grande sciopero generale di natura operaia. Certo non pastorale ma annunciatore di un altro 2 ottobre 1946 quando in provincia di Sassari, braccianti e contadini invasero terre incolte. La storia della proprietà e dei furti, delle soccide, delle compagnie barracellari, dell’abigeato, della produzione di carne-latte-lana bisogna vederla anche da quest’ottica. D’altronde: forse che non furono servi pastori espulsi dalla crisi delle campagne i mineros che morirono a Buggerru nel 1904? Ancora a settembre. Mese significativo settembre.
È l’inizio dell’anno agrario e per questo si dice Capitanni, Cabudanne. Un frammento di quelle condizione ed educazione: “Era una vita dura. Sveglia prima dell’alba per mungere il bestiame e poi accudirlo, attento a che le pecore non brucassero ferula verde e non sconfinassero nel pascolo del vicino amico-nemico. Giorno e notte. D’estate senza copertura. D’inverno, nelle transumanze, riparati sotto le pietre o sotto fogli di lamiera quando pioveva. Non si tornava mai. Neppure la domenica. Bisognava sempre governare il gregge e superare la paura degli abigei e dei grassatori. Il contratto stipulato tra il padre del bambino-pastore e il proprietario di gregge era rinnovabile di anno in anno. In cambio di quella formazione alla durezza della vita niente soldi ma il vestito di campagna, un paio di scarponi, il vitto e alla fine dell’anno due agnelli da mettere a parte per iniziare così a formarsi un gregge proprio”. Settant’anni fa. Ieri e oggi da reinterpretare.
Dice un interessante pezzo, “La pastorizia non regge – La natura del problema”, pubblicato a firma “Agricola” nel sito www.area89.it il 31 agosto scorso che “non è scritto da nessuna parte che i sardi debbano fare per forza i pecorai; non è scritto nel loro DNA e neppure nella loro tradizione più antica. Sono stati i caseari laziali, poco più di cento anni fa, a proporci di intraprendere questa carriera, per sfruttare il pascolo brado che da noi abbondava come in nessuna altra parte d’Italia”. Se non ci fossero, dentro questo “pascolo brado”, un bel po’ di grovigli: il mai risolto contrasto tra meres, padroni, printzipales, proprietari di terreno di semina e di pascolo, latifondisti e tzeracos, costretti alla servitù, non proprietari, non possessori di cosa fissa, transumanti, erranti. Una rilevante quota delle nostre guerre civili, come sardi, riguardano appunto la terra, il conflitto tra pastori e contadini, le pakes, le tregue, l’infrazione dei patti.
È su questo fatto endemico di divisione, di individualismo pastore, di solos che fera costretti al duro lavoro per gli altri e all’erranza, che si basano millenni di venute e dominazioni esterne. E pure banditismo. Leggere soprattutto il “Codice della vendetta barbaricina” come rielaborato da Pigliaru per comprendere. Non per giustificare. Per comprendere quali meccanismi di appartenenza oppure no alle “nassones pastorali” (Pira) determinino orrori come la strage di Sa Ferula: 9 settembre 1948, 4 carabinieri uccisi da una banda armata, scortavano il furgone con le paghe per gli operai dell’Erlaas, quelli che irroravano di Ddt le campagne. Erano ancora e sempre tempi di malaria, di cavallette.
Ma ci sono pure altre storie. Il biennio 1949-‘50 mette insieme, in sciopero continuo, la gente della “Costituente Terra”. Animatori il Partito Comunista e il Partito Socialista. Minatori, contadini, braccianti, pastori. Cooperative a Samassi, in altri paesi del Campidano.L’intento che unisce gli occupatori di terre è la trasformazione delle campagne. Guasila, Furtei, Barumini, Sardara, Gesturi, Sa Zeppara tra San Nicolò Arridano, Guspini e Pabillonis. Scontro con la “Celere” e con i carabinieri a cavallo. Diecimila persone. 16 marzo 1950: arrestati a Cagliari Sebastiano Dessanay e il segretario del Psi Branca.
Ma in tutto sono più di 400 gli arrestati. Ed era il maggio del 1950 quando le Camere del lavoro sarde organizzarono al Teatro Massimo di Cagliari operai, minatori, artigiani, contadini, pastori. Anche allora, dice un documento recuperato, “il prezzo del latte è stato ridotto quasi a metà dell’anno scorso e i pastori non solo non possono pagare i pascoli ma non riescono a scomputare neanche le caparre”. Vent’anni dopo, la legge De Marzi Cipolla. Dice Agricola: “Dopo la legge delle chiudende questo è il provvedimento legislativo che ha inciso più profondamente sui rapporti economici di chi operava nelle campagne”.
Da là riprenderemo il discorso.

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