La storia di Adama

1 Dicembre 2011

Manuela Scroccu

Adama Kebe è una donna originaria del Senegal e, come molti suoi conterranei, è arrivata nel nostro paese nel 2006 senza un regolare permesso di soggiorno. Clandestina, direbbe qualcuno. Ha trovato lavoro come operaia, in nero e sottopagata, ingrossando l’esercito dei senza diritti. In Italia, Adama ha conosciuto un uomo, anche lui un connazionale, con cui ha iniziato una relazione e poi una convivenza. Ed è cominciato anche l’incubo: violenze continue, sia fisiche sia psicologiche, abusi sessuali ripetute e minacce. Lui è in regola, lei no: una sola parola e con la legge Bossi Fini ti rispediscono a casa. Questa è la minaccia più grave, l’arma più potente, insieme ai pugni e al coltello, che il suo carnefice utilizza per costringerla al silenzio. Le associazioni Migranda e Trama di Terre hanno deciso di divulgare la terribile storia di Adama proprio il 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, proclamata l’Assemblea Generale dell’ONU con una risoluzione il17 del dicembre 1999. Sono sette milioni, nel nostro paese, le donne vittime di violenza. Gli ultimi dati Istat fotografano una situazione desolante: una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, è stata colpita nella sua vita dalla violenza di un uomo e, nel 63% dei casi, ai maltrattamenti hanno assistito i figli.
La categoria più numerosa è composta dalle donne più giovani, quelle tra i 16 e i 24 anni, mentre ben il 96% delle donne non parla con nessuno delle violenze subite, per paura di ripercussioni – i maggiori responsabili delle aggressioni sono infatti i partner – o peggio per vergogna. Anche Adama, per ben quattro anni, ha subito in silenzio. Per quattro anni, è stata derubata di gran parte del suo salario dal suo compagno – padrone. Per quattro anni, ha accettato ogni angheria per paura di essere rispedita in Senegal. Alla fine dell’ultimo litigio, nella notte tra il 25 e il 26 agosto, il convivente le ha puntato un coltello alla gola, ferendola al collo e a un braccio, dopo averla violentata e brutalmente picchiata.
Deve esserle costato molto pensare di rivolgersi ai carabinieri per denunciare le violenze subite: è difficile quando si è persa ogni speranza, quando i maltrattamenti e le umiliazioni subite hanno schiacciato la propria autostima e la propria dignità. Deve esserle costato immaginare di raccontare a estranei il suono sordo degli schiaffi, il dolore dei pugni che martoriavano la propria carne, la brutalità dei ripetuti stupri. Forse è stata la paura della morte, o più probabilmente, il pensiero che se le fosse successo qualcosa nessuno avrebbe provveduto ai suoi figli rimasti in Senegal. Adama è riuscita a chiamare i carabinieri ma al loro arrivo le forze dell’ordine non hanno più trovato il suo aguzzino. Hanno trovato solo lei, terrorizzata e spaurita.
Adama, nonostante i cinque anni in Italia, parla correttamente solo il dialetto wolof e, con le sue scarse conoscenze linguistiche dell’italiano, non è stata, probabilmente, in grado di farsi comprendere. Così i carabinieri hanno potuto accertare solo che la donna era priva dei documenti e l’hanno immediatamente accompagnata al Cie di Bologna, dov’è tuttora trattenuta dal 26 agosto, per l’identificazione e l’espulsione.
Adama sarebbe stata inghiottita nel buco nero dei centri d’identificazione ed espulsione, con la complicità di una legge e di una burocrazia impietosa, e di lei, come di tanti migranti, non avremmo mai saputo niente. Le autorità coinvolte, chiamate in causa da un’efficace mobilitazione dell’opinione pubblica (l’appello per Adama è stato firmato da 800 persone), sono ovviamente molto caute – la questura ha negato il permesso di soggiorno per motivi umanitari – e ancora c’è chi adombra che ci sia qualcosa di poco chiaro nella sua vicenda.
Di certo, però, c’è che Adama ha potuto parlare con il suo avvocato solo a ottobre – con l’ausilio di un interprete- e finalmente, ha potuto sporgere denuncia contro il suo aguzzino. Anche se la giovane donna senegalese si trova ancora all’interno del centro di Bologna la sua storia, per fortuna, è riuscita a superare i muri di cemento della sua “prigione”.
Adama si è rivolta alle forze dell’ordine per denunciare i soprusi cui era sottoposta dal convivente, ma non aveva i documenti in regola ed è finita al Cie di Via Mattei.
La violenza contro le donne ha molte facce: Adama ha subito una doppia violenza, come donna e come migrante, da un uomo violento e prevaricatore che ha abusato di lei e da uno Stato cieco che ha risposto alla sua richiesta di aiuto con una detenzione amministrativa.
Lui, il suo aguzzino, è libero. Lei, la vittima, è in attesa d’espulsione. Non possiamo accettarlo.

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