Il dio inutile

1 Dicembre 2011

Natalino Piras

Cosa resta dell’industrializzazione iniziata in Sardegna centrale un quarantennio fa. Il progetto era il petrolchimico: il futuro. Industria come fosse statalizzata, il marchio Eni come garanzia. La plastica come cosa e come lessico.  Migliaia di posti di lavoro, a tempo indeterminato. Altro che posto fisso nella pubblica amministrazione. Rubarono braccia all’agricoltura. Piccoli pastori vendettero il gregge e diventarono operai. Dall’orario flessibile della campagna, che era un senza tempo, a quello scandito dai turni della fabbrica. Convinsero gli emigrati a tornare. Durò poco. Già sul finire dei settanta un libro di Giovanni Columbu, Il golpe di Ottana, evidenziava il fallimento. Non c’era mercato per il tessile filato nella cattedrale nel deserto, due ciminiere come due totem a un dio innaturale. Non si può inventare rivoluzione industriale dall’oggi al domani in un paesaggio refrattario ai superamenti, il concetto di famiglia-nassone come clan: più guerra civile per la proprietà delle terre che per i pascoli comunitari. Già agli inizi degli Ottanta la cassa integrazione passava da spettro esorcizzato a conquista sindacale. Senza che, al di là di esempi individuali, si fosse iniziata a formare una coscienza condivisa del proprio status operaio. Ottana aveva come paradigma contiguo la zona industriale Tossilo di Macomer. Che a sua volta riconvertiva in organizzazione import-export di manufatti  l’esperienza degli industriali del latte e del formaggio del Marghine, nel cuore del cuore della Sardegna. Ma tutto è finito in un progressivo e sempre più veloce slittare verso frantumazioni in fabbrichette che sono servite a mascherare lo sgretolamento del “colosso” chimico ottanese.  Solo che le professionalità perdute, i quadri già formati e licenziati non venivano effettivamente riassunti. Sempre più gente a spasso. La Regione sarda non è mai riuscita nel corso di un trentennio a surrogare il taglio di sovvenzioni. statali. Sempre più gente a spasso. Intanto anche la cartiera di Arbatax entrava in crisi e la fabula ogliastrina narrava che ai cassintegrati andava bene perché oltre che con il salario del non-lavoro si arrotondava chi con l’orto, chi con la vigna, chi addirittura inventandosi altra attività piccolo-industriali, altre fabbrichette. E i politici, professionisti o simili, onorevoleddos,  a cercare di creare piccoli bacini elettorali in questa frantumazione. Un calzificio a Prato Sardo ha aperto per chiudere. Quasi un prologo della Legler di Siniscola. Oggi il lessico delle frantumazioni lascia come retaggio di questa industrializzazione chimica fallita parole a volte di senso compiuto altre di terra sospesa: alberghi, alimentari,  panifici: il miraggio del turismo e un tentativo giusto di ritorno a su connottu. Ci sono, c’erano sino all’altro ieri, nel territorio nuorese inteso come provincia capannoni per macchinari, per produrre detergenti e macchine per la pulizia industriale, materiali dell’edilizia, pannelli solari, impianti idraulici, acquari, arredamenti, viaggi e ancora miraggio del turismo, comunicazione e marketing (?), allestimento pizzerie e bar, bed and breakfast, tutto-quello-che-serve-per-case-vacanze, case vacanze (?), artigianato artistico, tutto quello che serve per agente-affari-in mediazione, per servizi assicurativi-finanziari (?), tipografie e litografie,  tutto quello che serve per agriturismi (?), climatizzazione, coltelleria, condizionatori, pure qualche gioielliere, registratori di cassa e bilance elettroniche,  fotografi, informatica, pubblicità e comunicazione. Ma non siamo una società industriale. Abbiamo già detto in precedenti interventi cosa sia oggi la società pastorale. Tendiamo verso il nulla.  Come produzione per il mercato, come indotto, come retaggio, come progetto. Nessun aumento di Pil, nessun diffuso benessere. Come se l’archeologia industriale fosse un altro dei nostri destini segnati sin dall’antichità da negativi presagi. Più discarica  e luogo del residuo che archeologia industriale vera e propria.  Riconversione,  territorializzazione?  Di che cosa? Manca un reale progetto, a sistema, di parco geominerario, da Lula a Gadoni passando per il talco di Orani. Eppure nella mina lulese, nelle grotte oranesi e nelle raminosas funtanas di Gadoni sputarono sangue e fiele generazioni di veri minatori. Solo che non ebbero né tempo né opportunità di pensare a un dopo dal contingente dello sfruttamento e da quello che si diceva un tempo “gioco padronale”: il dividere, l’isolare ancor più i tipi sindacalizzati. Nessuna possibilità di una storia da raccontare secondo un’ottica differente da quella degli storici di mestiere. Che osservano fatti e dati, anche gli storici di “sinistra”, secondo uno schema professorale accademico. Dall’alto verso il basso. Mai viceversa. Non sempre la comparazione dei dati, la tabellazione, la categorizzazione permette giusta visione. Invece la memoria pastorale, operaia, dei disoccupati e dei precari, uno storico deve sentirla come cosa propria.  Solo un vero sentire permette riconversioni e ricicli. Qui niente. Fantasmi della divisione come struttura portante. In un libro che la scuola sarda dovrebbe rendere di testo, Francesco Spanu Satta parla della Sardegna contemporanea come  preda di un dio seduto (1978), l’orrifico e produttore di tempo fermo Bes che si fa il Baal fenicio  a cui si sacrificavano  bambini. L’industrializzazione della Sardegna più interna è invece opera di un dio inutile. Quando il gioco padronale del dare a cottimo venne fatto alla Betatex bittese, quattro capannoni  nell’altipiano di San Giovanni,  nel cuore degli anni Settanta, miliardi di contribuiti regionali a un imprenditore bergamasco per una fabbrica durata meno di due anni, lavorare filati provenienti da Ottana per un mercato inesistente e in concorrenza con analoghe fabbriche, stesso padrone, in Camerun; quando tutto questo veniva costruito, la critica operaia, all’interno degli stessi quattro capannoni definiva i cottimisti come “ispartinabraia”, spargi brace. Come dire che affidavano al vento le scintille di fuochi fatui. Questo è il presente industriale  nostro contemporaneo a Nuoro e dintorni: una fabbrica di fuochi fatui.   Né, stando così le cose, si può pretendere una speranza per affrontare la recessione profetizzata. Certo non si muore di fame. Ma c’è povertà: nuda e cruda. La colletta alimentare di sabato scorso in  supermercati e discount  è stata  fatta per gente nostra, immigrati compresi. Dicono le cifre che siamo una popolazione di 160.677 abitanti per 52 paesi, Nuoro compreso. Cifre ufficiali che hanno già provveduto a togliere dal computo Ogliastra, Bassa Gallura e la Planargia bosana. Siamo pochi. Dobbiamo imparare a fare fronte insieme. Il significato profondo e l’etimo della parola “compagno” provengono dal dividere insieme il pane. Fratelli e sorelle nella crisi. Speriamo di restarlo anche dopo, se riusciamo a superarla. Sarebbe la nostra risposta al dio inutile.

1 Commento a “Il dio inutile”

  1. nughes e bentu scrive:

    vero e terribile

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