Identità collinari

1 Giugno 2012

Marcello Madau

Ha avuto un senso speciale per me presentare i contenuti e la scrittura che Carmine Abate ci ha proposto nella sua ultima opera letteraria, il magnifico romanzo ‘La collina del vento’.
Continuo a non sapere, nonostante qualche chiamata che inizia  a sommarsi in modo preoccupante  (soprattutto per autori e pubblico), cosa sia una recensione o una presentazione. Soprattutto quando si tratta di racconti e poetiche. Regolarmente decido di lasciare spazio al mondo che il libro mi ha messo in movimento, e analizzo ciò che a questo dinamica concorre, emergendo.
Mi sono avviato perciò verso Alghero ancora immerso nella storia raccontata da Carmine Abate e finita di leggere poche ore prima. Al punto che mi sentivo, assieme a mio figlio, dentro una delle tante scene della collina e del paesaggio calabrese.
Emilio Sereni vide il paesaggio agrario come una sorta di ‘alias’ di quello culturale, definendolo come  le  forme impresse dall’uomo nel corso del tempo al paesaggio naturale. L’urbanista Edoardo Salzano lo ha definito come ‘aspetto dell’ambiente’ e forma del territorio, sua morfologia, crocevia di un punto di vista estetico, storico ed ecologico. La convenzione europea del paesaggio lo lega a fattori identitari.
Il paesaggio del cuore si lega a quello che accoglie e ospita la collina dell’antica Crimisa e del tempio di Apollo Aleo; è un paesaggio mediterraneo e meridionale, nel quale quello della mia terra sarda trova il primo posto più ampio, o, come per altre cose si usa dire, la sua casa comune.
Affinità negli scenari di una terra assolata che riceve altre genti che arrivano dal mare, in un luogo dove si percepiscono e vivono antiche storie indigene. Nella Calabria ionica. A sud di Sibari, grande città greca con la quale i Serdaioi (i sardi, secondo alcuni) fecero una celebre alleanza. Fra Sibari e Crotone, a nord di quel Capo Lacinio dove guardava il mare il più importante dei santuari greci di Occidente. Il santuario di Hera Lacinia, alla quale un ignoto navigatore donò una bellissima navicella nuragica. Crimisa, fondata da Filottete, esule miceneo dalla guerra di Troia. Ancora comuni identità egee per i mondi indigeni di Calabria e Sardegna.
La difesa della collina operata in un secolo dalla famiglia calabrese degli Arcuri assomiglia a quella che si cerca nella mia terra, anche se nella realtà la difesa sembra avere meno successo che nella letteratura.
Ma la poetica ci regala una lezione e un sogno; le storie che invitano alla speranza sono reali: come le descrizioni dei reperti archeologici trovati nella collina e attorno alla collina, la vicenda dell’archeologo Paolo Orsi. L’autore dimostra che una storia può essere affascinante anche senza inventarsi i dati archeologici, senza licenze poco scientifiche, che nessuna libertà artistica può alla fine giustificare.
La lezione del sudore del lavoro, della sua conquista come realizzazione di un progetto di vita, utile per la propria esistenza, per quella degli altri e di ‘quella magica collina’. Dati reali, come le violenze ed i soprusi dei latifondisti e del fascismo, le speculazioni edilizie dei villaggi turistici e degli impianti eolici che cercano di conquistare la collina in nome di una superiore utilità.
Connessioni. Profumate come le essenze mediterranee (profumadas sas aeras), il caldo e gli alimenti. Parole, essenze e preparazioni che in Sardegna conosciamo: mendula e mostaccioli; ginestre, borragine, cardi, asparagi selvatici. La pasta con i ceci.

E anche le differenze ci parlano di una comune rivolta contro il padrone: le lotte dei contadini calabresi della terra e quelle dei minatori di Buggerru, trucidati  e attori del primo sciopero generale italiano nel 1904, all’inizio della saga della collina del vento.
Differenze per addizione, non per separazione, mi dice ad Alghero Carmine Abbate, uomo di Carfizzi, paese arbëresh della Calabria. Lingue diverse emergono nelle pagine.

Comunità più ampia. Identità che si formano attraverso i beni comuni, le appartenenze di paesaggi dove la storia è dentro la terra, nei corpi e nei pensieri delle persone.

Con l’archeologia non si mangia, si dice nella saga: quanto è diversa la riflessione dalla frase infelice di Giulio Tremonti. Perché diverso è il significato di mangiare.
Però in cento e più anni la collina sembra respingere l’attacco del potente latifondista poi diventato podestà, del capitalismo turistico, di quello ecologico.
Ma della collina si vive, e non è separabile da noi. A suo modo, la nudità,  drammatica, è rivelatrice. 
L’archeologia e Crimisa diventano una vera prospettiva.
Ci auguriamo che tutto il mezzogiorno mediterraneo, compresa la nostra isola, capisca la straordinaria possibilità, per uno strano destino che si lega al sottosviluppo (degli altri), di proporre alla visita il miracolo di un paesaggio culturale caldo, in grado di raccontare se stesso e le storie dei popoli.
Forse tutto ciò, da altre parti e in questa maniera, non è più possibile.

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