Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano

1 Aprile 2009

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Marcello Madau

Il fatto che Alberto da Giussano sia sbarcato in Sardegna merita una riflessione accurata. Temo però, visto che l’identità oggi si forma attraverso rinnovate e potentissime relazioni fra mass-media e potere economico, che sbagli (ovviamente mi auguro di sbagliare io)  chi pensa che il partito di una nazione inesistente polentona non possa avere un seguito in una terra che può vantare una ben diversa tradizione autonomista. Ma andiamo con ordine. La formazione della storia del prode capo della Compagnia della Morte è davvero interessante. Possiamo certamente pensare che il guerriero con la spada sguainata verso l’alto sia un personaggio immaginario, simbolo adeguato per una nazione altrettanto immaginaria: ma l’Ottocento ci ha regalato, nel generalizzarsi di nazionalismi e apparati identitari, straordinarie invenzioni mitografiche per garantire coesione ed emozionale seguito di massa ad interessi assai più concreti e reali.
Un primo fatto che colpisce è la scelta di un modello medievale: nell’invenzione per la costruzione della memoria culturale le ‘radici’ vengono generalmente ricercate in età più antiche, nelle regioni dell’archeologia (non di rado quella immaginaria). E’ vero che le ascendenze celtiche non mancano di essere invocate dalla Lega Nord, come quelle longobarde, col risultato di una curiosa miscela fra background celtico e germanico, dando respiro europeo alla Padania e richiamandosi ad un’opposizione antiromana storicamente fondata. Eppure la Lombardia fu strutturata in gran parte per città e comunità autonome senza un territorio precisamente configurabile come nazionale (figurarsi la Padania), né una volontà esplicita in tale direzione: lacuna storica e concettuale irrimediabile. Però i ceti dominanti dell’Ottocento avevano bisogno di un’invenzione  che potesse combinare il sentimento antiromano (la lotta contro Federico Barbarossa, rappresentante del Sacro Romano Impero), il potere dei ricchi signori lombardi (i Visconti, gli Sforza), il cattolicesimo integralista del papato.  E in realtà, come vedremo, i Visconti a loro modo avevano già provveduto nel Trecento.
E’ quindi nell’Ottocento che si precisano racconto, profilo e conseguente iconografia del nostro guerriero, che vede luce figurata e fortemente iconica nella statua realizzata, nel 1900, dalle mani magistrali di Enrico Butti. Il racconto ruota attorno alla battaglia di Legnano nel 29 maggio 1176 contro Federico Barbarossa, grazie ad uno schieramento di aristocrazie locali e papato a difesa del ‘Carroccio’, carro a quattro ruote simbolo dei comuni della Lega lombarda. La figura del condottiero si inserisce in quella precarietà delle fonti tipica delle invenzioni ottocentesche, dotate di strane documentazioni tardive, non di rado opera di monaci (quelli che sapevano scrivere, sia cose vere che cose false).
E’ il caso di un  frate domenicano cappellano di Galeazzo Visconti, Galvano Fiamma, che avrebbe scritto di Alberto da Giussano circa centocinquantanni dopo la sua presunta esistenza. Nelle più autorevoli fonti coeve e successive alla ‘battaglia di Legnano’, precedenti al Fiamma,  non vi è traccia né del prode condottiero né dei suoi novecento cupi guerrieri. Nella seconda metà dell’Ottocento per questo racconto inventato si forma un nucleo politico e letterario, storicamente coeso e coerente: se Goffredo Mameli scriverà  dovunque è Legnano nel suo ‘Inno d’Italia’ e Carducci licenzierà nel 1879 la sua Canzone di Legnano, è curioso e per certi versi divertente il fatto che fu proprio una figura ferocemente contestata dalla Lega Nord come Giuseppe Garibaldi (‘assassino’, ‘massone’, ‘criminale di guerra’) a chiedere con forza in un comizio tenuto a Legnano nel 1862 che la città dedicasse una statua, poi realizzata dal Butti, ad Alberto di Giussano.
I lombardi, definiti in regione grazie a quel catasto voluto nella seconda metà del Settecento dall’Austria,  colsero l’opportunità del dinamismo piemontese per liberarsi dal dominio austriaco, ma poco parteciparono al processo costitutivo dell’Unità d’Italia, più interessati per natura alla difesa municipalista dell’autonomia economica e alle tasse.
Ma identità e identificazioni oggi, anche in Sardegna. si possono giocare ben oltre gli schemi classici e definirsi nel potente spazio dei media. La parte innovativa del gioco presuppone l’adesione al simbolo facile, di successo, securitario di Alberto da Giussano. E per qualcuno potrà essere importante sentirsi parte di quella comunità (identità) leghista che nei tracciati della comunicazione televisiva appare come popolaresca, ribalda, razzista, con personaggi di successo ben inseriti nello spazio del potere.
C’è poi una parte classica, che vede muoversi, attorno a scenari simbolici di facile presa e assimilazione, precisi interessi in grado di definire, come da tradizione, i confini  territoriali e gli spazi identitari attraverso lo spazio delle merci: intanto è la trama economica interpretata dalla relazione politica fra l’Assessore regionale all’agricoltura Prato e  quello nazionale e leghista Zaia.
A giudicare dai gonnellini presenti in corpo e spirito nella Giunta regionale, l’invettiva antimassonica della Lega Nord qua in Sardegna si ridimensionerà.
Di fronte a queste identità assai concrete poco conta paragonare l’inconsistenza storica del nazionalismo padano e la nobile tradizione autonomistica sarda:  ci sarà qualcuno che si riconoscerà nei lugubri soldatini medievali della ‘Compagnia della Morte’ e del presunto eroe Alberto da Giussano, mentre gli interessi di precisi gruppi economici cercheranno di passare, speriamo con difficoltà e nel breve spazio di una legislatura già da incubo, all’incasso.
Nel frattempo dovrebbero essere finite in Romania le riprese del film su Barbarossa (e Alberto da Giussano) caldeggiato da Umberto Bossi e discusso nella celebre telefonata fra Berlusconi e Saccà (dicono si possa ancora trovare su youtube). Una produzione di soli 30 milioni di dollari, per la RAI. Una fiction su un’invenzione ideologica pagata concretamente da tutti i cittadini.
Ma la finanza creativa ha saputo risparmiare sulle spese di produzione grazie alle basse retribuzioni delle centinaia di comparse rumene (quelle di Legnano sarebbero costate di più): l’importante è che in Italia gli emigrati non abbiano diritto di voto.

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