Da dove ripartire

22 Settembre 2012

Inseriamo questo ampio e importante intervento di Rossana Rossanda, pubblicato il 19 settembre scorso su ‘il manifesto’, che in maniera esemplare colloca la crisi del quotidiano all’interno di un contesto nazionale e internazionale, analizzato con dettaglio.
Ciò che dice sul manifesto è importante. Le parole sono attente e dure. Crediamo – come militanti del giornale e dei circoli – che la discussione debba accendersi definitivamente: ‘il manifesto’ è un quotidiano troppo prezioso a sinistra. La sua proprietà reale ci sembra vada ben oltre fondatori, redattori e circoli (Red).

Rossana Rossanda

La discussione sul manifesto è partita male. La prima domanda non è di «di chi è» ma «che cosa è» il manifesto. Anche per ragioni economiche. Un giornale è nel medesimo tempo una merce, se lettori non lo comprano fallisce. Occorre chiedersi perché da diversi anni abbiamo superato il limite delle perdite consentito ad una impresa editoriale, mentre i costi di produzione salivano. Direzione, Cda e redazione + tecnici hanno sottovalutato questo dato, pur reso regolarmente noto, illudendosi che avremmo recuperato lettori aumentando le pagine e i servizi con un restyling dopo l’altro. E’ stato un errore imperdonabile. Se il giornale è di chi lo fa, il suo fallimento è di chi lo ha fatto. Cioè noi. Teniamolo presente. Altri giornali «politici» – cioè interessanti per un governo o una forza di opposizione o un gruppo sociale – hanno avuto problemi simili ai nostri: una tradizione da non perdere, una redazione rodata da decenni, vendite insufficienti e ricorso a finanziatori (nel nostro caso circoli o gruppi di lettori). Nessuno di questi tre attori è in grado di far uscire da solo un quotidiano. Perciò, per esempio in «Le Monde» la proprietà è ripartita un terzo i fondatori, un terzo la redazione e un terzo i finanziatori. Se il manifesto vivrà ancora, la sua proprietà potrebbe poggiare su un sistema analogo.
Ma preliminare è che redazione, lettori e finanziatori siano d’accordo sul suo ruolo: «che cosa è», se ha un legame con la sua origine, se c’è un collettivo di lavoro che ci crede e un numero di lettori e sostenitori in grado di farlo uscire.
Le ragioni per rispondere sì o no a queste tre domande possono essere molte, ma tutte politiche. Su di esse è manifestamente diviso il «collettivo», mentre del gruppo dei fondatori siamo rimasti soltanto Parlato, Castellina ed io, e non è chiaro che cosa auspicano lettori e circoli di sostegno.
Il manifesto è nato nell’onda del ’68 come quotidiano comunista libertario. I fondatori erano stati radiati dal Pci per questo e per la loro critica radicale all’Urss. Il riflusso del ’68 assieme alla liquidazione da destra dei «socialismi reali» sono pesati sul collettivo non meno delle difficoltà materiali di tirare avanti. Il collettivo si è andato dividendo fra reducismi diversi, tentazioni di appoggio diretto o indiretto ai sostitutivi del partito comunista (Pds e seguenti o Rifondazione e seguenti), movimenti o «il movimento dei movimenti». Più di recente fra ecologia e teoria dei beni comuni.
Si riflettono nel suo specchio le difficoltà di una «sinistra» sempre meno omogenea nell’interpretare contraddizioni e bisogni d’un assetto sociale investito dalla crisi del socialismo reale e dal mutare della scena internazionale rispetto a quella ereditata dalla seconda guerra mondiale. Delle due superpotenze durate dal 1945 agli anni ’90 una è sparita, l’Urss, la seconda, gli Stati Uniti, resta la più armata del mondo ma non ha più il primato nel ritmo di sviluppo che è passato alla Cina (partito unico e socialismo «di mercato») per il suo alto tasso di crescita, e per il fatto di detenere gran parte del debito americano. Nuovi per importanza anche i paesi «emergenti», il Brasile in ascesa con un modello politico democratico e socialmente progressista, l’India democratica e capitalista, mentre l’America Latina, sfuggita al dominio statunitense, sviluppa diversi progressismi a scarsa democrazia formale. La caduta dei socialismi reali ha frantumato il modello duale fra un «capitalismo imperialista» e i «socialismi reali», i secondi sono scomparsi e il primo vacilla fra crisi economica, sopravvento della finanza sulla «economia reale», incertezze del modello sociale, crisi della democrazia rappresentativa. Se vi si aggiunge la riaffermazione delle religioni monoteiste in polemica con il pensiero politico moderno, è evidente che i parametri con i quali si dovrebbe analizzare il presente non sono gli stessi di trenta anni or sono.
In Italia il suicidio del Partito comunista, non accompagnato da una analisi autocritica ma da elusivi cambi di nome e defezioni della sua base storica, e quello analogo della democrazia cristiana, ha portato a una crisi di identità della politica e dei partiti, che ha dato luogo alla consegna di tutto il parlamento alla priorità della «tecnica» rappresentata da Mario Monti. Ai margini si sviluppano dei movimenti o proteste qualunquiste al limite della legalità costituzionale. E’ il solo paese che ha rinunciato a una fisionomia propria e articolata, seguendo i dettami liberisti della Unione Europea, fatti propri sfuggendo a ogni consultazione popolare.
Che può essere il manifesto in questo quadro? Direzione e collettivo si sono sottratti a un’analisi, fino ad arrivare a una dichiarazione di fallimento, dando voce senza discuterla a questa o quella posizione delle deboli sinistre come se fosse la propria. In particolare ad appoggiare la rinuncia ai partiti come forme della politica per una rappresentazione diretta di opinioni e interessi che si configurerebbero attraverso liste civiche più o meno legate ai comuni. Tuttavia l’assenza di una discussione lascia aperte anche altre ipotesi, come lo strutturarsi di un partito del lavoro per ora non ulteriormente definito.
Identità e finalità del manifesto non sono più quelle delle origini, ma il mutamento non è stato dichiarato. Così come sembra scomparsa, anche qui senza una argomentazione esplicita, la nostra ricerca di un marxismo critico. Le une e l’altra esigerebbero un lavoro analitico comune che non c’è stato, come se l’uscita quotidiana fosse incalzata e sommersa da eventi non previsti né dominati. Non a caso la sola priorità emersa dall’ex collettivo è stata la difesa del posto di lavoro.
Tale andazzo non è accettabile e il progressivo diminuire dei lettori e dell’ascolto lo conferma. Ammesso che la testata possa riprendere su un base economica sana e finché direzione e collettivo non avranno votato la decisione di rompere con la sua origine, il manifesto ha l’obbligo politico e morale di definirsi rispetto alla sua intenzione fondativa.
Nel 1969 dirsi comunisti non era puramente simbolico: le lotte degli anni sessanta, i movimenti studentesco e operaio del ’68 e del ’69, la vittoria del Vietnam che si annunciava, i problemi aperti dalla Cina sulla natura del socialismo reale, permettevano di puntare come a un obbiettivo realizzabile a un mutamento del rapporto di forze fra le classi, e all’interno delle medesime. Non solo fra di noi ma nel Psiup e in più d’uno dei gruppi che avrebbero tentato di dare vita alle forze extraparlamentari si era già riflettuto sui limiti di una rivoluzione dal vertice, soltanto politica, su quelli di una mera sostituzione del capitale pubblico al privato, e si erano fatti impetuosamente strada due temi di grande rilievo che erano assenti dall’agenda del socialismo, il femminismo e l’ ecologia.
Questo processo è volto a termine in meno di un decennio, lasciando in piedi soltanto la tematica del movimento operaia in quanto fatta propria da alcuni sindacati, il problema sollevato dal femminismo e dall’ecologia. Ma le sinistre storiche – non solo per non rompere il legame con l’Urss, della quale non vedevano il declino – non si sono aperte alla inattesa spinta diffusa che emergeva in quegli anni, non hanno alimentato né si sono alimentate di questo movimento ma piuttosto vi si sono opposte. Isolato, quando non combattuto, esso è stato lasciato a una generosa ma immatura elaborazione, favorendo alcune derive, e infine la sua stessa dissoluzione. Ne è venuto un vuoto politico irrimediabile, dal quale è scaturita, più che in altri paesi dove la sinistra era pesata di meno, un disorientamento e poi una svolta dell’opinione verso una destra che Berlusconi – meno di cinque anni dopo il crollo del Muro di Berlino -esprimeva nella sua forma più volgare, e da questa sarebbe andata al nascere di un populismo distruttivo.
Non siamo stati capaci di occupare quel che poteva essere il nostro proprio terreno di lavoro, la crisi dei socialismi reali, che eravamo stati i soli ad annunciare, la ristrutturazione del capitalismo a livello mondiale, le diverse soggettività che ne sarebbero seguite. Il trionfo dell’avversario ci ha debilitato e demotivato: non solo i lettori sono diminuiti ma è calato il peso che il manifesto aveva avuto nell’opinione anche in momenti difficili, come il sequestro di Moro, l’emergenza, la messa sotto accusa del ’68. Gli anni ’80 ne sono stati la prova. La caduta dell’Est, che per noi doveva essere un’occasione, è stata la cartina di tornasole sulla quale si è scoperta la debolezza delle sinistre storiche ma anche la nostra, che non l’ha affrontata ed ha finito con il considerarla uno scoglio da evitare. Eppure un vecchio slogan aggiornato dalle nostre Tesi del 1970, «socialismo o barbarie» diventava la vera alternativa: come chiamare altrimenti la soppressione progressiva di ogni diritto sociale cui siamo avviati? Non tanto il «potere ai Soviet», del cui fallimento storico abbiamo lasciato parlare le destra, ma la priorità della salvaguardia del fattore umano, della sua crescita e dei suoi diritti è andata svanendo a favore d’un affidamento al libero mercato come unico regolatore sociale, facendoci arretrare agli anni venti e all’orlo delle pericolose involuzioni che ne sono seguite. Su una scelta liberista, e contrariamente alle speranze dei suo primi padri, s’è fatta l’Unione Europea, avvitandola saldamente con il trattato di Maastricht, ai pii desideri del trattato di Lisbona, alla impossibilita di sottoporsi a un giudizio dei popoli. Assai lontana da una omogeneizzazione politica, la Ue non è, in sostanza, che la sua moneta, l’euro, sottoposto ad acerbe oscillazioni per la discrasia dei regimi fiscali, l’ingigantirsi della finanza, la deindustrializzazione del continente, la conseguente debolezza dei codici del lavoro, la crisi esterne, prima di tutte quella dei subprimes nel 2008. L’esorbitante aumento della finanza rispetto alla cosiddetta economia reale e la interdizione agli stati di intervenire a correggerlo, ha esposto l’euro a una oscillazione in tutti i paesi del sud, cui si impongono direttamente per via legislativa o indirettamente, tramite il gioco dei mercati enfatizzato dalle agenzie di rathing, crudeli cure di austerità, che li precipitano nella crescente disoccupazione e precarietà. In queste condizioni rinascono scetticismi antieuropei ridesta e di sinistra, e la legittimazione popolare sia d’una misura o di un governo è resa difficile.
La politica lamenta che l’economia la ha sopraffatta, come se essa stessa – e si tratta di governi di socialisti, laburisti o di centrosinistra – non se ne fosse liberata, rinunciando alla possibilità di intervento pubblico («meno stato più mercato») e accettando la riduzione dell’economia a pura contabilità della spesa dello stato, aggravata dai six pack successivi. Privi di risorse, per la disoccupazione crescente e il rifiuto d’una tassazione dei redditi e in particolare della finanza, gli stati sono paralizzati e le classi subalterne pagano prezzi sempre maggiori. Basta scorrere i pochi articoli del «fiscal compact» votato dai governi europei il 28 giugno a Bruxelles per rendersi conto che si tratta di puro obbligo monetario, che avrebbe addirittura favorito la speculazione dei mercati sul debito degli stati se la Bce non fosse intervenuta con prestiti illimitati a breve termine, evitando uno strangolamento immediato ma esigendo dai paesi che li richiedano che si accetti uno stretto controllo della Bce, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione. Il testo del fiscal compact appare difficile da sottoporre a un referendum, come chiedono alcune sinistre radicali, per il suo tecnicismo (tempi dei rimborsi e condizioni per i crediti) e il suo silenzio su tutte le richieste socialmente pressanti. Come osserva più d’uno dei commentatori politici (G. Rossi su «Il Sole 24 ore» o Adriano Prosperi su «Repubblica») il fattore umano è del tutto assente da questi accordi, che neppure notano l’aumento dei disoccupati (si calcolano 18 milioni in Europa), l’estendersi della deindustrializzazione crescente, la delocalizzazione verso paesi a costo del lavoro più basso che mediamente in Europa, la minaccia di evasione fiscale degli alti redditi in Francia.
Tale scelta dei governi, che rappresenta il massimo consenso alla tesi di un von Hajek e il massimo della contraddizione all’orientamento delle costituzioni dopo la seconda guerra mondiale, toglie spazio all’uso di quelle possibilità di difesa delle classi subalterne che esse avevano conquistato nel lungo periodo del compromesso keynesiano, prodotto dallo scontro fra capitale e lavoro, delineato per primo da Roosevelt come via d’uscita dalla crisi del ’29, sicuramente rafforzato dalla potenza dell’Urss e teorizzato dopo il 1938 soprattutto in Gran Bretagna. Il movimento del ’68 ne ha messo in luce i limiti politici e strutturali, ma è d’obbligo riconoscere che lo ha destrutturato, evidenziandone appunto gli aspetti di compromesso sociale, piuttosto che spingerlo in avanti. Accelerata dopo il 1989, la Unione Europea è nata sconfessando il modello «keynesiano» (e la nuova sinistra ne aveva dato alcuni argomenti) e una bozza di trattato dopo l’altra, malgrado i wishful thinkhing di Lisbona, hanno vincolato gli stati a un rigore di bilancio basato sulla riduzione del costo del lavoro e su una sua organizzazione che le nuove tecnologie permettono di ridurre nelle quantità della manodopera invece che nella riduzione dei tempi e delle cadenze, mentre la liberazione del mercato da ogni vincolo permette di mettere in concorrenza i salariati europei con quelli di paesi ex colonizzati, assai minori. Le classi subalterne sono spinte, come in Grecia e in Spagna, a votare il proprio annichilimento sindacale e politico. Non sorprende che dilaghi l’euroscetticismo soprattutto nelle ex roccaforti operaie e che in esse abbiano ascolto le destre estreme.
Quando l’ad della Fiat, Marchionne, parla di «un prima e un dopo Cristo» nelle relazioni sociali sottolinea una verità: le sinistre, non solo comuniste e socialiste ma socialdemocratiche, hanno lasciato nel disorientamento del 1989 la loro base e i loro principi, con ciò perdendo il loro potere contrattuale (salvo in alcuni paesi scandinavi) ed è quel che ne rimane oggi è il bersaglio della controparte. Non inganniamoci: non è il comunismo che oggi il padronato delle multinazionali ha deciso di distruggere, operazione che ha già compiuto da solo, ma quella legittimità degli opposti interessi sociali che i Trenta Gloriosi avevano dovuto riconoscere, che aveva permesso alle lotte operaie di esistere e di conquistare alcune condizioni che ancora oggi alcuni, anche fra noi, considerano diritti inalienabili. Non ci sono nei rapporti fra le classi diritti inalienabili. Essi vanno difesi metro per metro dalla possibilità di un arretramento, del quale nel recente passato lo strumento fondamentale è stata la utilizzazione esclusivamente padronale della tecnologia, e oggi la più volgare riduzione dell’economia a una contabilità dello stato, mutilata dalle entrate un tempo assicurate dalla più vasta platea occupazionale, e al suo regime comunitario. In questo senso la soggezione ai dettami liberisti, sulla quale è stata formata la Unione Europea, somiglia a un fatale combinato-disposto: è interdetto alla sfera politica di intervenire sul sistema economico, ed è permesso al sistema economico di intervenire nel continente, entrandovi e uscendone senza renderne conto agli stati, mentre le distruzioni, che queste razzie comportano sul tessuto sociale dei diversi paesi, costituiscono un aggravio finanziario per il relativo stato mentre ne minano le basi e il consenso.
La ricostituzione d’un potere di contrattazione sostenuto dalla legge e di conseguenza d’un controllo politico, statale o comunitario, sui movimenti di capitale, unitamente alla tassazione delle transazioni fiscali, è una misura che si va rivelando sempre più urgente. Ed è sostenuta non solo dalla manodopera industriale, che chiede di ricostituire le sue basi produttive, adeguandole nel contempo alle compatibilità ecologiche e ambientali, e quindi una politica economica esplicita e discussa in comune, ma anche dalle classi medie, il cui potere d’acquisto è in calo. L’allargarsi del ventaglio delle disuguaglianze sociali, come non mai nel secondo dopoguerra, ha portato a un affluire della ricchezza su un decimo della popolazione, e della grande ricchezza su un decimo di questo decimo (Gallino, Pianta).
E’ una tendenza non sostenibile, e impone una inversione di rotta. Anche perché allo sbiadire dei rapporti di forza contrattuali si aggiunge l’affievolirsi del più generale sistema democratico, che si sconnette e contraddice, da una parte, sotto l’urto del mercato selvaggio e, dall’altra, di una antipolitica diffuso. La lezione di Federico Caffè è stata distrutta negli anni ’70 e ’80.
Essa è una condizione perché l’orizzonte di una trasformazione che investa alle radici la proprietà resti aperto, salvaguardandone anzitutto i soggetti. I tentativi di assegnare ad altri gruppi sociali il ruolo che era stato posto nella classe operaia non ha avuto esito. Esso non è durevolmente passato alla gioventù acculturata e/o marginale, come pensava Herbert Marcuse, malgrado i processi di proletarizzazione cui è sottoposta, né nelle popolazioni dei paesi terzi, come si è creduto nel primo postcolonialismo, né nella reattività delle moltitudini, difesa da Negri e Hardt.
In Italia, l’azzeramento di fatto del parlamento nella unanimità senza condizioni richiesta da Mario Monti per accettare l’incarico ha ottemperato di fatto alle condizioni poste dalla Bce, dal Fmi e dalla commissione europea. Quale partito o coalizione si presenta oggi esplicitamente contro Monti, garante di questa Europa? E di Monti, e ciò che rappresenta, è garante il presidente della Repubblica. Che questa soluzione sia stata promossa da un ex dirigente del Pci diventato Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è il segno più eloquente di ciò che è avvenuto nelle sinistre nel 1989. E anche dei limiti assai stretti nei quali potrà muoversi, se ci sarà, di una alternativa a questo governo.
Ma occorre tenere presente questi vincoli, dunque spostare l’orizzonte in Europa, se si vuol evitare che il primo passo già compiuto nella recessione diventi un cadere catastrofico in essa. E’ la situazione di tutti i paesi europei del sud, dalla Grecia all’Italia alla Spagna, al Portogallo, e l’indice attorno allo zero crescita previsto in Francia sta mettendo anche Parigi su questa soglia. Negli Stati Uniti, l’esito della crisi del 2008 è violentemente impugnato dalle destre per corrodere i flebili risultati della presidenza Obama – dipinti come addirittura «comunisti»- in Francia per bloccare in partenza le modeste riforme di Hollande, dovunque per non disturbare il capitale finanziario, e per esso, soprattutto da noi, le banche tedesche. L’aggressione è totale.
Ma hanno ragione Stiglitz e Krugman a scrivere che questa strada è senza uscita, i livelli di disoccupazione e di «crescita negativa» non sono sostenibili da nessun paese, senza conseguenze politiche nefaste, ripetendo uno scenario da Anni Venti. I paesi del sud non vedono uscita dal tunnel, ma comincia a patirne anche la Germania che vendeva la maggior parte dei suoi prodotti sul mercato europeo, e lo vede restringersi. Una svolta appare a molti necessaria. Bisogna dimostrare che è ragionevole e possibile.
Mi pare indubbio che il manifesto, qualora resti in vita, debba lavorare sulla base di questa analisi e insistere sul riportare il fattore umano – occupazione e servizi sociali, redistribuzione delle imposte sui ceti più favoriti e sulla finanza – al centro di qualsiasi programma politico che si dica di sinistra. Argomentando modi e tappe e battendosi per spostare i vincoli europei che vi si oppongono. L’inquietudine è grande in vari paesi del continente, e il nostro giornale potrebbe darle argomenti e voce. Si tratta di un lavoro politico e culturale di lunga lena, rivolto senza equivoci a quella parte del paese che non intriga ma pensa e si interroga, smettendo di galleggiare su obbiettivi generici e a breve, nessuno dei quali è riuscito a realizzarsi ad oggi.

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