Senza la chimica tutto è possibile

16 Dicembre 2012
Paola Pilisio
Una delle conseguenze della crisi, sicuramente la più rilevante per il nostro futuro, è che per la prima volta nella storia ci troviamo a dibattere, a ragionare, a riflettere e ad agire sulla relazione tra lavoro e ambiente. Al centro di questo straordinario mutamento, c’è il lavoro industriale, cioè buona parte del lavoro salariato, così come si è storicamente costituito. Le fabbriche che hanno  chiuso percorrendo questo ciclo non si contano. Le ragioni son state ogni volta diverse. O perché la produzione era diventata tecnologicamente obsoleta. O perché si è proceduti a una delocalizzazione in aree geografiche più favorevoli per le materie prime, i salari e altro. O perché la crisi della domanda interna ha innescato fallimenti a catena. Accompagnata da un insieme di meccanismi sociali, dalla cassa integrazione al pre-pensionamento, la riduzione e a volte l’estinzione dei grandi nuclei di lavoro salariato non cessa di impressionarci. Il fatto è che sino ad ora, lavoro industriale e piena occupazione sembravano andare insieme a braccetto. D’altronde, ancora oggi, si continua a pensare che la disoccupazione, specialmente dei giovani, non potrà essere riassorbita che dal rilancio di un processo di industrializzazione del tipo di quello che si è conosciuto nei decenni ruggenti dello sviluppo capitalistico del dopo guerra. Nel nostro immaginario, e in alcuni casi nel nostro ricordo, restano impresse le lotte degli anni sessanta e settanta, quando la classe operaia conquistava dignità e diritti fino ad allora sconosciuti, affermando una sua inedita supremazia politica e sociale.
Oggi, è l’esistenza stessa della fabbrica e dei suoi prodotti che sta entrando in drammatica contraddizione con l’ambiente e la salute. Questo è il dato sicuramente più notevole che ci aiuta a riscrivere la storia passata e a fissare il punto irrinunciabile da cui muoversi. Una realtà industriale a noi vicina, quale quella del grande polo chimico di Porto Torres, può servire per sviluppare il nostro ragionamento a partire da una esperienza concreta per molti aspetti similare ad altre della Sardegna. Secondo i progetti della Cassa del Mezzogiorno e della Regione, si trattava intorno agli anni sessanta di costituire a Porto Torres un ciclo produttivo che sfornasse in contemporanea prodotti chimici e classe operaia. Una produzione andava con l’altra. In qualche anno, gli impianti sono venuti su come funghi coprendo migliaia di ettari di terreno, mentre la forza lavoro delle campagne e dei paesi del circondario, veniva sradicata e convogliata nel nuovo Eldorado. Lo  sconvolgimento dell’economia tradizionale, certo già in crisi, è stato ovviamente drammatico, ma la scelta fatta in modo sicuramente incosciente o poco riflettuto aveva messo il divenire di questi nuovi operai fra le perdite e i profitti del progresso.
Quello che non si era messo in conto invece, e che nessuna programmazione  aveva visto venire, era l’evoluzione dell’industria chimica.  In pochi anni la crisi del petrolio e l’obsolescenza del ciclo tecnologico della SIR di Rovelli  porta così al fallimento il mitico gruppo industriale fondatore. Partiva così in fumo la montagna di capitale pubblico investito  nell’avventura. Denaro pubblico che avrebbe meritato una ben altra destinazione, per esempio nelle campagne o nel turismo o in nuovi mestieri. In maniera accelerata, così come erano apparsi, scompaiono per primi gli operai delle imprese che avevano costruito la fabbrica e poi, a poco a poco, ma a ritmo sostenuto, i lavoratori chimici. Nessuno prende allora la misura di quello che succede, non i programmatori, non i politici, non i sindacati. Gli stessi operai si aggrappano al duro tempo che fu tra nostalgia e disperazione. Nessuno presta un occhio al disastro ambientale prodotto, nessuno lancia uno sguardo verso un futuro diverso, tutti richiedono la stessa cosa come si fa al bar: chimica, un’altra chimica. L’ENI, foraggiata dallo Stato, non si fa certo pregare per ereditare l’immenso polo industriale, terreni, acque, porti, banchine compresi. Il tutto per un totale di 2700 ha di territorio, cioè più del 20% dell’intera superficie del comune di Porto Torres. Città che continua a pagare, non si sa perché, ma apparentemente consenziente, un tributo spropositato per i sogni industrialisti della Regione e del Capo di Sopra. Come c’era da prevedere, la presa in mano dell’ENI nel 1981 non arresta la lenta agonia di un ciclo produttivo condannato a termine, prima di tutto per i danni che produce  e, in secondo luogo, per il carattere non più competitivo delle residuali produzioni.
E oggi a che punto siamo? Gli impianti sono fermi, non si produce più niente salvo ruggine, ma rimane la finzione di circa cinquecento lavoratori occupati. In realtà questo residuo operaio è in mobilità come si dice, più o meno in cassa integrazione nell’attesa che si realizzi il progetto della così detta chimica verde in cui sarebbero almeno in parte integrati. Il progetto è a rilento, intralciato per tante ragioni, finanziare, tecnologiche, industriali e soprattutto giuridiche. Esso dovrebbe realizzarsi nell’attuale zona industriale che per legge è dichiarata S.I.N.(sito di interesse nazionale ove l’elevato inquinamento delle falde, dei suoli, dei sottosuoli, delle acque dei fiumi, del mare e dell’aria mettono quotidianamente a rischio la salute di chi ci lavora e di chi ci abita). Infatti dal Rapporto Sentieri stilato dal Ministero dell’Ambiente si evince un numero crescente di tumori. In realtà, la partita che si sta giocando, è intorno alla relazione fondamentale  tra ambiente e lavoro. E’ legittimo aggiungere veleno a veleni? Si può continuare a  mettere in opera produzioni altamente inquinanti al di là del limite autorizzato dalla legge? Limiti  tutti già spaventosamente superati. In una situazione di crisi persistente dell’occupazione, sembra avere la meglio una visione limitata per non dire cieca e suicidaria del rapporto tra salute e  lavoro. In ogni caso così la pensano l’ENI, i pochi operai residuali, i sindacati tutti, amministratori e sindaci senza progetto. E’ evidente a tutti ormai che il problema dell’occupazione a Porto Torres riguarda in primo luogo i novemila disoccupati che il lavoro non lo hanno conosciuto né da vicino né da lontano. Disoccupati di cui l’ENI non si occupa sicuramente. Insistere sulla chimica anche quando non produce lavoro in un bacino di occupazione assolutamente depresso  è un modo come un altro di fare niente facendo finta di farlo. Bisogna liberarsi dell’ENI. Bisogna bonificare le teste dall’inquinamento intellettuale, oltre che materiale che l’ENI promuove e purtroppo realizza. E’ un  tale programma che sembra animare le iniziative promosse dal comitato No Chimica Verde. Ma questo non si potrà fare senza prendere le distanze da un ciclo produttivo che al meglio produce profitti continuando a  distruggere i nostri luoghi, e non assicura certamente lavoro. Al lavoro, si arriverà non con l’ENI ma investendo sulle immense energie che i disoccupati racchiudono in se stessi, energie  non prese in considerazione dall’ipotetica  chimica  verde o di qualunque altro colore essa sia ma da essa paralizzate e da tutti quelli che la sostengono. La grande industria non produce più lavoro, ma può produrre altri disastri ambientali. Anche per questo una nuova dimensione del lavoro può e deve cominciare dalle bonifiche che sono comunque urgentissime, bonifiche a cui naturalmente l’ENI coperta da tutte le istituzioni e poteri pubblici si è sin’ora rifiutata.

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