Le mura di un carcere trasudano miseria

16 Dicembre 2012
Valentina Ascione
“Quasi tutti i desideri del povero sono puniti con la prigione”. Rimbombano nella testa queste parole di Louis-Ferdinand Céline – nel suo Viaggio al termine della notte – come nei corridoi i passi svelti dell’agente di turno che ci fa strada, staccandoci di un paio di metri: quelli necessari a evitare che la nostra visita sorprenda qualche detenuto in atteggiamento o in abiti sconvenienti. Preoccupazione tutt’altro che peregrina, specialmente a Sassari, dove c’è solo un muretto a separare il gabinetto dal resto della cella, dalle brande, dal tavolo e dagli armadietti in cui ciascuno conserva i pochi indumenti consentiti dal regolamento. O a Messina, dove non c’è neanche quello e i detenuti hanno dovuto ingegnarsi per trovare un po’ di privacy dietro un vecchio lenzuolo che avvolge il cesso come fosse una tenda; per non cedere anche quell’ultimo briciolo di dignità senza il quale si ridurrebbero ad animali in uno zoo. Per molti, tuttavia, è già così; per qualcuno è addirittura peggio. E i paragoni con bestie da macello e polli in batteria si sprecano nelle invocazioni che in italiano per lo più malfermo si levano al nostro passaggio, mentre volti di tutte le età e di colori diversi si affacciano curiosi sulla soglia di celle anguste o affollatissime, divorate dall’umidità e dal fumo acre di innumerevoli sigarette. Circondati da pareti sporche e scrostate, tappezzate con immagini di modelle, calciatori e auto sportive a coprire i buchi, o con decine di pacchetti vuoti di Marlboro ovunque riciclati come saponiere e portaspazzolini. Attraverso le sbarre lanciano sguardi interrogativi, molti si rivolgono alla telecamera gesticolando o sorridendo, qualcuno si copre il viso. Sguardi diffidenti o pieni di speranza. E poi mani, per fermare il nostro cammino. Chiedere una sosta e qualche minuto appena di attenzione per storie, vite, tutte differenti eppure segnate da un destino comune.
E’ sempre difficile scegliere in quale cella entrare. Doloroso, quasi, poiché è impossibile restare sordi alle grida di chi ci invita anche nella propria, per mostrarci, ad esempio, i materassi sbrindellati della casa circondariale di Canton Mombello a Brescia dove regolarmente si dorme per terra perché i reclusi sono il doppio, e a volte anche di più, dei posti letto; o per chiederci riprendere gli scarichi che all’Ucciardone non funzionano o lo scroscio d’acqua che allaga il pavimento ogni volta che si apre un rubinetto. O i rubinetti secchi della vecchia casa di reclusione di Favignana, dove d’estate l’acqua manca per gran parte della giornata e quando c’è sa di sale.
Quando l’anno scorso con Simone Sapienza, collega di Radio Radicale, abbiamo deciso di realizzare una video-inchiesta nelle carceri italiane eravamo ovviamente già a conoscenza del grave stato di crisi del nostro sistema penitenziario; della situazione drammatica denunciata da direttori, poliziotti, educatori e altri operatori che ne sono vittime e prigionieri come i detenuti, che a migliaia riversano il proprio disagio nelle lettere che in quantità arrivano in redazione o al Partito radicale. Eravamo certamente aggiornati sulla serie interminabile di suicidi e atti di autolesionismo, sul tasso crescente di sovraffollamento e sulla scarsità cronica di risorse economiche che ostacola la promozione di attività di trattamento, impedisce la rieducazione dei reclusi e ne compromette la sicurezza. Tuttavia, ogni volta che abbiamo messo piede in una cella degli otto istituti a cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ci ha dato accesso, ci si è aperto davanti uno scenario ben al di là delle nostre aspettative. E, prima di ogni altra cosa, un mondo governato dalla miseria.
Le mura di un carcere trasudano miseria. Ogni aspetto, ogni angolo, ne racconta la povertà: il degrado delle strutture, la sporcizia, l’odore del vitto nelle narici sembra resistere, sempre uguale, all’alternarsi delle pietanze, da Giarre a Brescia, passando per Messina, Palermo, Perugia. Ma a colpire è soprattutto l’indigenza della popolazione detenuta. “San Sebastiano è un istituto di persone molto povere, alcuni non hanno nemmeno il conto corrente”, raccontava Teresa Mascolo, direttrice allora della struttura sassarese, tra le più problematiche sul territorio nazionale, dove meno di un detenuto su quattro aveva la possibilità di lavorare come portavitto, “scopino” o addetto alla manutenzione ordinaria. Chi dentro non ha un lavoro né fuori una famiglia su cui poter contare – come la maggior parte dei detenuti stranieri che in Italia superano un terzo del totale e in istituti come quello di Canton Mombello toccano punte del 70 per cento – finisce per non avere neanche i soldi per acquistare l’acqua minerale, laddove quella del rubinetto non è potabile al di là di ogni ragionevole dubbio; un bagnoschiuma, uno shampoo o altri prodotti per l’igiene personale. Ed è dunque costretto a vivere, o meglio, sopravvivere con quel poco che le finanze disastrate delle strutture riescono a fornire ai detenuti: tre pasti al giorno, per i quali l’amministrazione penitenziaria spende meno di 4 euro a persona – e che qualche istituto non riesce ad assicurare a tutti – lenzuola monouso e un rotolo di carta igienica al mese per ciascun detenuto; uno ogni due settimane nel migliore dei casi.
La disparità di risorse, oltre a negare una detenzione dignitosa per i più indigenti, in qualche caso è fonte di tensioni tra compagni che non contribuiscono allo stesso modo, ad esempio, all’approvvigionamento di quanto necessario per la pulizia della cella. Ma a prevalere è in genere la solidarietà e quindi una sorta di “welfare autonomo” in base al quale i più fortunati danno una mano a chi non ha i mezzi per soddisfare perfino i bisogni più elementari. Come nel piccolo carcere di Giarre, dove spesso gli ospiti della sezione a custodia attenuata per tossicodipendenti cedono parte del proprio vitto a quelli della sezione “comuni”.
Nel corso degli anni la tipologia di detenuti è notevolmente cambiata per l’altissima percentuale di tossicodipendenti, circa il 30 per cento, raggiunta nel giro di un decennio. E per quella ancora maggiore di stranieri, frutto della “mancanza di occasioni legali di ingresso nel nostro Paese che determina una fascia molto consistente di clandestinità” – ci ha spiegato Fulvio Vassallo, docente di Diritto di asilo all’Università di Palermo – all’interno della quale “è facile restare coinvolti nel traffico di stupefacenti” e in altri reati.  Si accredita sempre di più, dunque, la definizione del carcere come una “discarica sociale”. Popolata di persone per le quali la galera è una condizione quasi inevitabile, “prive di punti di riferimento sociali, culturali e lavorativi”, secondo Eugenio De Martino che da anni presta servizio come educatore a Favignana, nella fortezza risalente al XII secolo, dove alcune tra le immagini più suggestive della “cinematografia carceraria” si materializzano nella dura realtà dei “cubicoli”, celle scavate sette metri sotto terra, con poca aria e senza luce naturale.
Tra queste vecchie mura sono rimasti confinati per anni – prima di essere trasferiti in una nuova struttura carceraria qualche centinaio di metri più in là – gli internati della Casa di lavoro; persone spesso con problemi di tossicodipendenza o provenienti dalla marginalità sociale che hanno già espiato la propria pena, ma che per riacquistare la libertà devono dimostrare di non essere più socialmente pericolose in base a criteri poco trasparenti perfino per i magistrati di sorveglianza, che quando si trovano davanti ai loro fascicoli preferiscono passare oltre. Così, proroga dopo proroga l’internamento diventa una sorta di “ergastolo bianco”.
L’incertezza normativa è uno degli aspetti più critici della vita penitenziaria. E fa il paio con l’enorme potere discrezionale di direttori che hanno strettissimi margini di manovra nella gestione delle risorse economiche, distribuite dall’alto su capitoli di spesa rigidi e predefiniti. Ma che possono invece intervenire su quasi tutto ciò che scandisce la vita quotidiana dei reclusi. L’orario delle docce, ad esempio, le telefonate, o il contenuto dei pacchi che possono entrare in carcere. Fino alle cose più piccole, come il numero di caramelle che un papà detenuto può portare al colloquio con i propri figli. Concessioni e divieti, piccoli o grandi, di cui molto spesso i detenuti ignorano la ragione. E che tuttavia possono fare la differenza in un sistema disumano, oltre che illegale sotto il profilo costituzionale.
“Una monarchia. Perché tutto quello che succede si risolve qua dentro, non esce mai fuori niente”, chiosa in barese stretto Giuseppe Cassano, detenuto a Messina Gazzi. Una sintesi che forse vale più di mille parole.

“Just(ice) In Italy – Se vuoi conoscere la civiltà del tuo Paese devi visitare le sue carceri” è un’inchiesta prodotta da Radio Radicale e realizzata da Valentina Ascione e Simone Sapienza, con la regia di Pasquale Anselmi.

1 Commento a “Le mura di un carcere trasudano miseria”

  1. Anelise Pinna scrive:

    Grazie a voi . Fatti che traffiggono il cuore , avete messo piu’ che in evidenza il quotidiano di un carcerato , ma io vorrei aggiungere i passaggi e le difficolta’ che incontrano i familiari ai colloqui , lunghi passaggi burocratici , umiliazioni alle perquisi , oltre al dolore l’impotenza di poter agire , e il cuore si spezza ancora di piu’ , sapendo che chi sta’ dentro e’ innocente , ma’ in attesa di trovare qualcuno che spezzi il silenzio , con una coscienza sveglia ,e un cuore che batta umanamente .

    Un caro saluto Anelise

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