Le maschere verdi

1 Febbraio 2013
Marcello Madau
Le aggressioni al territorio stanno cambiando segno e credo anche stiano crescendo. Probabilmente  oggi ne abbiamo percezione maggiore: però stanno aumentando e modificandosi. Non riguardano più, e solo, le coste, laboratorio tradizionalmente privilegiato per la speculazione edilizia, per gli interessi immobiliari e finanziari. Ora ci sono a pieno diritto anche le aree interne, territori di conquista per l’affare globale dell’energia e dei rifiuti.
Il sogno del turismo ‘non solo costiero’ si sta trasformando nell’incubo di una speculazione allargata tramite   il tentativo di trarre utile, speculando sulla popolarità delle energie sostenibili o la necessità di produrre rifiuti per poterli smaltire,  da territori che presentano poca popolazione,  terre spesso abbandonate e soprattutto una feroce disoccupazione e povertà di introiti e risorse.
Sono indici di crisi che conducono ad una particolare debolezza esponendo  oggettivamente gli amministratori a pressioni, ricatti e doni. E’ un attacco insidioso,  perché impoverisce paesaggi nei quali la bellezza e la varietà costituiscono risorsa non ripetibile e premessa  ad un modello di sviluppo che non ripeta gli errori industrialisti del passato, e neppure la storica disponibilità alla cessione dei  territori. La risorsa non ripetibile modificata nella sua sostanza non sarà più risorsa.
Le coste non mancano di casi assai forti, o per distruggerle una seconda volta dopo averne abusato (e distrutto, oltreché mare e aria,  il retroterra), come a Porto Torres o a Sarroch, o per nuove riproposizioni del lusso, come nella nuova Costa Smeralda. Ma la speculazione avanza con pesantezza verso l’interno, che offre oggi – dopo tentativi così spesso violenti come mostra l’affare dell’eolico (perché basta girare l’isola per coglierne l’eccesso, e la assai rada applicazione in vere aree industrialmente già degradate) – nuovi scenari.
Nascono proteste, si formano gruppi, si evidenziano tracce di resistenza, talora più radicate nelle comunità che ancora si sentono depositarie del territorio bene comune. C’è un filo rosso che unisce la protesta e la resistenza turritana all’inganno della  ‘chimica verde’, il no alle trivellazioni della Saras ad Arborea in cerca di combustibile, la straordinaria levata di scudi della popolazione di Cossoine contro la calata di Energo Green sui pregevoli spazi aperti ed agricoli,  annullati nella prospettiva di una centrale solare termodinamica di grandi dimensioni.
Con il passare degli anni e l’aumento delle osservazioni, mi sto rendendo conto che dietro la stessa, idealistica percezione estetica della bellezza di un paesaggio vi sono fatti assai concreti: vi è la differenza, la biodiversità che ne è complemento non casuale, la percezione quotidiana di orizzonti nei quali la nostra osservazione primaria, che parte dal senso visivo e conduce elaborazioni connesse alla percezione, non viene confinata  nei muri di cemento e nei cieli di piombo. E la stessa bassa carica di antropizzazione di tanti paesaggi della Sardegna permette di capire che un territorio dove hanno un ruolo importante le profondità prospettiche e il ‘non costruito’  è un territorio prezioso.
Curiosamente la percezione degli altri ci aiuterebbe da tempo…. Perché gli altri, i viaggiatori non sardi che attraversarono l’isola fra il limitare del Settecento e l’Ottocento (ma ancora percezioni simili le vediamo entro la metà del Novecento, forse fino agli anni Sessanta),  hanno a modo loro colto e indicato questi valori.
Li hanno colti per mancanza di abitudine, o perché altrove erano già persi, o anche perché (penso agli inglesi) erano esperti di conquiste coloniali, come nelle Indie, dove nacquero  a contatto con quei mondi insoliti e incredibili, le discipline dell’orientalismo…
Che speranze abbiamo di resistere e rispondere? Cosa significa per il territorio? Ancora, cosa significa il territorio?
Non serve contrapporre un paesaggio romanticamente mitizzato  ad un utilizzo economico, un tipo di battaglia ‘ideale’ che non può che portare alla sconfitta. Il paesaggio  è   forma storicamente visibile del territorio, porta traccia delle sue vicende e si consegna per riceverne altre. Notava Alberto Magnaghi, nei lavori della Società dei Territorialisti, che il territorio è “sistema vivente ad alta complessità, dotato di corpo e anima, nel quale le relazioni tra soggetti sono mediate dalle relazioni che essi intrattengono con un ambiente materiale”.
Per chiunque lo utilizzi, stiamo parlando del principale dei mezzi di produzione.  Naturalmente l’ottica è diversa da quella di una volta, emergono nuove possibilità: nel territorio si può costruire ricchezza senza rinunciare alle memorie che lo tracciano ed esso rende percepibili. Facendone, al contrario, un punto di forza al centro di una corretta economia del tempo libero e del ‘paesaggio felice’, che esprime le sue potenzialità storiche e biologiche rispettose dell’uomo e dell’ambiente.
Caratteristiche fondamentali di questo nostro straordinario mezzo di produzione sono la irripetibilità, la scarsa pressione antropica, la forte carica simbolica, le notevoli distese coltivabili per l’alimentazione e la capacità di una biodiversità ricca, variabilissima, pregiata. I monumenti. La forza compendiaria, il principale bene comune ‘matrice’, in quanto contenitore generale di beni comuni. E il legame con le popolazioni che le abitano.
Quest’ultimo è sottolineato in maniera assai forte dalla ‘Convenzione Europea del Paesaggio’ (dove il paesaggio viene definito, persino con profilo giuridico, “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”), traduce in significato pieno il rapporto bene comune/comunità, rapporto lessicale di forte suggestione e evidente proprietà.
Le comunità residenti perciò diventano soggetti reali per la gestione dei beni comuni. Al di là del giudizio specifico di danno relativo ad un progetto dato, è quindi la prassi che va profondamente modificata in senso democratico. Non è più accettabile alcun intervento su un territorio senza la partecipazione diretta e decisiva delle comunità.
Questo processo mette in luce diversi piani  di democrazia. A quello, direttamente politico, della direzione e gestione dei beni comuni da parte delle comunità territoriali ai quali essi afferiscono,  se ne aggiunge un altro che va alla sostanza stessa della democrazia, perché pone il classico, centrale e decisivo problema della proprietà dei mezzi di produzione.
Il territorio è la fabbrica da costruire, la fabbrica diffusa delle produzioni ecosostenibili, della ricchezza e dell’immaginario reale del tempo libero e liberato. Gli operai di questa fabbrica diffusa sono le comunità, i tecnici al suo servizio i lavoratori cognitivi dell’ambiente, della cultura, della terra e del mare. Ci auguriamo che esse si impadroniscano di questo mezzo di produzione. C’è molta strada da fare, e il processo pare agli inizi. Ma si possono percepire i possibili sviluppi: perché  le varie calate speculative iniziano finalmente a fare i conti con le comunità.

2 Commenti a “Le maschere verdi”

  1. Giacomo Oggiano scrive:

    Caro Marcello,
    mi piace la tua definizione di territorio come mezzo di produzione, assimilato ad una fabbrica diffusa. Non credo,però, che le “comunità” stiano al territorio come gli operai stanno alla fabbrica. La comunità è un’entità volatile, mal definibile, al suo interno vi sono portatori di valori (non negoziabili, o almeno così dovrebbe essere) e di interessi (molto negoziabili) diversi e contrastanti. L’appartenenza ad una comunità, di per sé, non è sufficiente a garantire la tutela dei valori che hai elencato. Chiediamo alla “comunità” ogliastrina cosa pensa del consumo di litorale e delle demolizioni delle case abusive . Ancora, se nel Logudoro la patina di vernice verde del solare e del termodinamico è stata grattata via e sono stati messi a nudo interessi che divorano valori come paesaggio e agricoltura, non così è nella Nurra dove appartenenti ad una comunità (i proprietari dei fondi) fanno a gara a cedere terreni per impianti di pannelli fotovoltaici.
    Lasciamo perdere, poi, l’opposizione ad un carotaggio a impatto zero da parte di una “comunità” che ha devastato con pesticidi e fertilizzanti le zone umide e i suoli dell’alto Campidano praticando un allevamento e un’agricoltura di plastica che, purtroppo, è l’unica a produrre su vasta scala in Sardegna. Magari ci fosse il metano il fatto è che l’unico metano nell’alto campidano è quello delle risaie e delle deiezioni ai prioni da mucche allevate in batteria che non vedono mai la luce del sole.

  2. Marcello Madau scrive:

    Caro Giacomo, ti ringrazio per attenzione e contributo. La comunità è per sua natura un organismo dinamico, sia nella coscienza che nella composizione…ma anche gli operai…. Non è che per caso in molti ragioniamo come che fosse ancora dominante l’operaio di linea, ad esempio? Come parlare senza differenziare fra classe operaia di fabbrica concentrata in un’area o in una fabbrica o ‘spalmata’ nel decentramento produttivo e nelle varie ‘manutenzioni’? Però esiste.
    Perciò non mi preoccupa la volatilità del termine ma la politica per unire un organismo che è comunque identificabile, studiandone ovviamente le categorie ‘compositive’ (come, ad esempio, il rapporto fra territorialità e ‘virtualità’). La complessa definzione del rapporto fra comunità e beni comuni del territorio non toglie il problema del rapporto con i ‘nuovi’ mezzi di produzione. Ovviamente il discorso va approfondito, articolato e sviluppato. Proverò a farlo. Ma è già in atto.

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