Lager center e dintorni

16 Maggio 2010

scroccu

Manuela Scroccu

Quando sui giornali è apparsa la notizia dell’esistenza di un call center, ribattezzato immediatamente dai giornalisti “il lager”, in cui i centralinisti venivano umiliati, picchiati con un frustino e costretti a stare al proprio posto, senza poter andare nemmeno in bagno se prima non avevano fatto un numero determinato di chiamate e trovato degli appuntamenti per mandare i venditori a presentare, casa per casa, un miracoloso aspirapolvere anti-acaro, il pensiero è andato immediatamente al film di Virzì “Tutta la vita davanti” e soprattutto al libro di Michela Murgia “Il mondo deve sapere”. Qualcuno, sulla pagina facebook della scrittrice, ha commentato che il mondo ha saputo ma non gliene è fregato un cavolo lo stesso. Come dargli torto? Le accuse mosse dagli inquirenti ai vertici della società Italcarone, (che spacciava l’aspirapolvere Kirby, ancora lui, come un presidio medico “anti-acaro”) vanno dai maltrattamenti nei confronti dei propri dipendenti, all’associazione a delinquere finalizzata alla frode in commercio e alla frode fiscale. Il meccanismo era sempre lo stesso: le telefoniste fissavano gli appuntamenti mentre i venditori, debitamente catechizzati con musichette motivazionali e slogan da ideologia yuppie molto spinta, dovevano chiudere i contratti, cominciando da parenti e amici,  in modo da piazzare l’aspirapolvere “presidio medico chirurgico elettromedicale anti acaro” al prezzo esorbitante di  3.500 euro (valore reale Euro 350,00, a voler esagerare). Nessuno dei dipendenti dell’infernale call center ha mai pensato di rivolgersi ad un’associazione sindacale. Nessuno ha mai neanche pensato di poter agire insieme ai propri colleghi di sventura anche solo per andare insieme in questura a sporgere querela. Le denunce, infatti, sono arrivate sul tavolo delle forze dell’ordine un po’ alla volta, dai singoli lavoratori. Tutti i dipendenti hanno percorso una strada individuale, lontana anni luce non dico da un’idea di sindacalizzazione ma neppure da una primitiva difesa dallo sfruttamento più spinto. Anche gli animali della savana capiscono che per difendersi dall’attacco del leone bisogna stare in branco. Gli inquirenti hanno dovuto mettere insieme pazientemente tutte queste testimonianze, prima di far emergere una realtà di vere e proprie vessazioni psicologiche e corporali per un guadagno mensile che a stento riusciva a superare i 600 euro al mese. Eppure, nonostante ciò, un’ex dipendente intervistata da Repubblica ha ammesso candidamente che il suo unico pensiero era come compiacere il capo e “raggiungere gli obiettivi”. Non aveva neanche mai pensato di avere dei diritti prima di aver visto il film di Virzì. Solo dopo la visione della pellicola cinematografica si è “riconosciuta” come lavoratrice sfruttata e ha deciso di licenziarsi. Dopo un film, non dopo un comizio della CGIL. Certo, il call center “lager” è effettivamente un caso limite. Non si può parlare nemmeno di lavoro, ma di vero e proprio indottrinamento ideologico, una sorta di mostruosa mutazione genetica della retorica del vincente e dell’etica del risultato ad ogni costo in cui gli sfruttati non hanno la consapevolezza di esserlo. Il call center del magico aspirapolvere anti-acaro è, quindi, soltanto un “freak” nel circo barnum della globalizzazione e della precarietà, un risultato deviato della crisi economica che costringe chi lavora ad accettare condizioni altrimenti inaccettabili? Se fosse così, sarebbe semplice derubricare questa vicenda tra le tante storie di precarietà “estrema” che hanno per protagonisti il popolo dei co.co.pro. e delle finte partite i.v.a.. Non sarebbe possibile, però spiegare la complice sopportazione  dei maltrattamenti, degli abusi psicologici e degli umilianti rituali motivazionali senza ipotizzare una sostanziale sintonia tra la mentalità degli sfruttatori e quella degli sfruttati. Non si accetta di vendere prodotti scadenti a prezzi esorbitanti all’anziano nonno e all’amico d’infanzia, se non si è assorbito un modello contorto dell’idea di lavoro in cui  l’unica via da percorrere è quella del mito del successo individuale da raggiungere costi quel che costi. Stiamo assistendo alla caduta di tutti i miti che  hanno avvelenato la politiche del lavoro di questi ultimi quindici anni: la liberalizzazione del mercato del lavoro e la flessibilità non hanno portato benessere ma una quarantina di tipi contrattuali diversi e a salari sempre più bassi. Si parla con sempre più insistenza di tornare ad un contratto unico a tempo indeterminato (il“posto fisso”) e c’è chi rimpiange il vecchio e tanto vituperato apprendistato. Il sistema sta crollando ma rischia di portarsi dietro un’intera generazione che non ha più consapevolezza dei propri diritti, figuriamoci se pensa a rivendicarli. Il call center degli orrori non appare, allora, come un’irreplicabile perversione in un mercato del lavoro tutto sommato sano ma rappresenta una sbirciatina in un futuro possibile.
Eccola di fronte a noi, l’evoluzione ultima e letale del mito della flessibilità, il risultato finale di una mutazione antropologica già in atto. L’aspirapolvere anti-acaro è venuto a ricordarci cosa potremmo diventare.

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