Libro sardo in mostra

1 Giugno 2010

cubeddu

Mario Cubeddu

A fine primavera la cultura in Sardegna ha avuto l’occasione di fare il bilancio della sua ultima annata. Le occasioni sono state due, ricche e importanti. Ricche in senso letterale, perché tra Fiera del Libro di Macomer e partecipazione al Salone del Libro di Torino la Regione spende per la vetrina del libro sardo una cifra che crediamo non molto lontana dal milione di euro. Soldi di tutti i sardi, da spendere quindi nel modo migliore. La prima esigenza sarebbe quella di un bilancio serio e onesto di ciò che si è fatto, di ciò che si è prodotto e di ciò che si è seminato. Ben poco di questo appare nella programmazione dell’intervento regionale alle due occasioni fieristiche. A Macomer uno degli incontri centrali vedeva come protagonista Sergio Frau e la sua tesi non inedita dell’Atlantide in Sardegna. Tutto si può dire, meno che si tratti di un tema di giornata. Non risulta d’altra parte che la tesi dello tsunami sia dimostrata, unico argomento che avrebbe giustificato un ritorno ad una questione che si cominciava a dimenticare. Il più importante appuntamento per gli editori, gli scrittori, le biblioteche, tutti coloro che per varie ragioni e in vari modi si occupano di cultura, è risultato un momento di esibizione puramente formale. Nessuna analisi seria di una annata culturale, nessun bilancio di risorse impiegate e di risultati ottenuti. La vernice ideologica derivata dalla presenza delle caserme dell’esercito nel centro Sardegna ha completato il quadro. Come ha scritto Michela Murgia, a Macomer la Regione ha dimostrato di privilegiare ancora una volta l’identità militare e guerriera della Sardegna che tanto piacque al fascismo. Se si scorre il programma della affollata presenza sarda al 23° Salone del Libro di Torino, non si può che provare la stessa sensazione di sconcerto e perplessità vissuta da chi ha passato in rassegna le bancate della produzione libraria esposta dagli editori sardi nella vecchia caserma di Macomer. I 150 anni dell’Unità d’Italia devono certo rappresentare qualcosa per la terra che ha vissuto per più di un secolo in coabitazione con i Savoia e i piemontesi, sperimentandone il governo “illuminato” e la repressione feroce, prima che questi inventassero lo Stato italiano. Ancora oggi manca un’opera leggibile che racconti loro la vicenda risorgimentale vista dalla parte dei sardi. Abbiamo avuto invece l’ennesima riproposizione delle tesi di Francesco Cesare Casula. Più frustranti e inutili che false, non aiutano a diffondere una conoscenza seria e approfondita del nostro passato. Storia in ogni caso di vane elucubrazione su temi istituzionali, non storia di uomini. La facilità con cui in Sardegna si cade nelle trappole proposte da tesi storiche discutibili, il credito che si concede anche a livello istituzionale a scopritori di tavolette nuragiche o di improbabili maschere carnevalesche, derivano direttamente dall’ignoranza della storia dell’isola. Nelle Università di Cagliari e Sassari non sono mancati e non mancano gli studiosi che si occupano di conoscere e raccontare le nostre vicende. Ma pochi leggono le loro opere. Sappiamo che talvolta devono ricorrere a editori nazionali per pubblicare a pagamento i loro saggi, poiché in Sardegna non esiste un’editoria scientifica credibile a livello nazionale e internazionale. Per il resto, nel materiale proposto dagli editori sardi a Torino si oscilla tra la proposta del solito folclore su fogli patinati e opere di livello modesto. Non si contesta il lodevole sostegno alle iniziative editoriali nuove e agli autori che si propongono con un’opera prima. Negli ultimi anni in Sardegna ci sono state esperienze di un’editoria di qualità, all’altezza della migliore editoria europea. Basta citare Il Maestrale di Nuoro, a cui si deve la scoperta e il lancio di Marcello Fois, Giorgio Todde, Flavio Soriga, Giulio Angioni, Salvatore Niffoi. A Torino, come a Macomer, si sono evitati con cura i personaggi della cultura sarda, scrittori, pittori, musicisti noti al pubblico, colpevoli di farsi conoscere, e magari di vendere, attraverso le case editrici nazionali. E questo perché anche i libri e gli scrittori sono ormai “un problema politico”. E’ impressionante leggere il documento inviato da Ivan Botticini, Presidente dell’Associazione degli Editori Sardi, al presidente della Giunta Cappellacci, all’Assessore Baire e a vari altri responsabili istituzionali del settore culturale. Il rappresentante degli editori scriveva a febbraio, mentre la mostra di Macomer era in preparazione, per criticare la presenza di un direttore artistico “dal curriculum insufficiente e non adeguato a gestire una manifestazione artistica di questa importanza”. Da addetti ai lavori presenti a Macomer non sono mancate le critiche all’organizzazione dell’iniziativa e la direzione artistica è apparsa carente per molti aspetti. Ciò che impressiona nel documento dell’AES è però la totale apertura di credito nei confronti della destra e la rivendicazione di un aperto contrasto alla giunta Soru da parte degli editori sardi. C’è una nostalgia struggente della grandezza passata: l’epoca in cui la Regione sarda approvava qualsiasi idea editoriale venisse proposta, l’imprenditore fissava un prezzo che consentiva all’edizione di pagarsi con poche centinaia di copie, l’ente pubblico acquistava copie che ammuffivano nei sotterranei dei palazzi regionali. Un sistema definito e consolidato dalle giunte di centro-sinistra, a dire la verità. Insieme al merito di ristampare e rendere accessibili a un pubblico vasto molti classici della letteratura e della storiografia sarda c’è la colpa di aver ceduto alle richieste di pubblicare libri inutili o dannosi. Si scrive che a Torino sono stati esposti 700 titoli presenti nei cataloghi delle case editrici sarde. Si tratta di un bel numero, considerato che non comprende gli autori sardi pubblicati da editori nazionali. Non siamo certi che ala quantità corrisponda la qualità. Quale è la persona di media cultura che possa indicare anche solo dieci titoli di libri importanti usciti in Sardegna nell’ultimo anno? Ci vorrebbe un minimo di controllo, di vaglio critico. Insieme a un indirizzo politico che non cambi ad ogni mutamento di giunta e di assessore è forse ancora più importante un controllo dal basso, da parte dell’opinione pubblica che legge e di chi dovrebbe darle voce. A chi si occupa di cultura spetta il diritto/dovere di valutare e scegliere, consacrare ciò che vale e condannare al ludibrio gli imbroglioni e i falsari. Purtroppo anche questa funzione essenziale manca nella nostra isola. Chi si prende la briga di leggere ciò che viene pubblicato, di segnalare le opere che resteranno e di stroncare le opere inutili, o dannose? La simpatia verso chi è contagiato dalla malattia della scrittura vanno separati dall’incoraggiamento di vanesi senza talento.
PS: alcuni dei commenti al mio precedente articolo “La sventura del signor Bonaventura” sembrano aggirare quella che per me è la vera ed unica questione: se Bonaventura Licheri non ha mai visitato col Vassallo i paesi sardi, se quindi le poesie che gli si attribuiscono e che raccontano le maschere, da Samugheo a Cuglieri, e tante altre, non sono state scritte dal Licheri nel Settecento, ma da qualcun altro nel Novecento, su quali basi si fondano i discorsi sulla loro esistenza? Solo questa autorizza a parlare di sacralità, mistero, etc. etc. Le tradizioni inventate non nascono dal popolo, ma da chi vuol lucrare sulla sua vita e sulla sua cultura. Non è difficile documentarsi su abbigliamento, consuetudini, vita sociale, momenti di festa, almeno a partire dal Settecento. Per scoprire magari quanto fossimo simili al resto dell’Europa mediterranea e così poco “nuragici”. Basta lavorarci sopra con pazienza. Ma gli archivi sardi, ben più ricchi di documenti di quanto si creda, sono desolatamente poco frequentati.

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