Pastori, capitale e identità

16 Settembre 2010

pastore_sardo

Colloquio con Giulio Angioni *

Prima la modernizzazione della società tradizionale sarda e poi, dagli anni Novanta, la mondializzazione dell’economia. Che cosa resta dell’antico mondo dei pastori sardi?
Potrei dire, per quanto so e capisco, che dell’antico mondo dei pastori sardi resta fin troppo. Ma questo fa problema col fatto che troppo è anche il nuovo nel pastoralismo sardo. Mi spiego articolando la tua premessa. Il fatto nuovo e capitale è vecchio più di un secolo. Ma poco considerato, così come ignoto e non consumato nell’isola è il prodotto di quel fatto nuovo: il pecorino romano. La pastorizia in Sardegna da millenni ha prodotto beni di consumo locale e materie prime per mercati anche non locali, come la lana. Ma è dalla fine dell’Ottocento che in Sardegna si è istallata la produzione industriale del pecorino sardo-romano, per i mercati e i consumatori nordamericani. Ben prima degli imprenditori turistici, i casari laziali e abruzzesi scoprono la Sardegna e ne fanno il luogo della caseificazione industriale del latte prodotto dalle greggi e dai pastori sardi, producendo anche il monopolio della produzione e del commercio del formaggio. I sardi conoscono poco questo processo che hanno visto nascere e crescere forse perché molti non hanno mai visto una forma di pecorino sardo-romano e tanto meno mangiato. Ancora oggi nell’isola non è mai in vendita. E’ raro sentir raccontare questa storia secolare fatta di implementazione della produzione di latte prodotto da una pastorizia brada, cioè seminomade e transumante alla maniera dei millenni passati, pastorizia brada che intanto si è ampliata fino a diventare nella Sardegna centrale una monocultura che ha travolto, con la crisi dell’agricoltura dell’ultimo dopoguerra, tutte le altre produzioni e attività a “vantaggio” dell’allevamento ovino per produrre latte che i casari continentali trasformano in pecorino romano da vendere a New York. I bisnonni e i nonni dei pastori che oggi lamentano i prezzi del latte imposti da grossi produttori ed esportatori sardi di pecorino romano si lamentavano dei prezzi del latte che “conferivano” alle “caciare” dei casari laziali e abruzzesi ingaggiati da imprenditori continentali. La struttura portante di tutta la faccenda rimane la stessa, sebbene nel frattempo i padri di questi pastori abbiano tentato, in base a progetti regionali negli anni della Rinascita, di liberarsi da quel monopolio industriale e commerciale “conferendo” il latte ai tanti caseifici sociali cooperativi della Rinascita man mano falliti. La pastorizia intanto è diventata sempre meno brada con le stalle e i mangimi industriali, si è meccanizzata nella mungitura e nel trasporto del latte in pickup o fuoristrada giapponesi, mentre la crisi dell’agricoltura tradizionale lasciava campi e poderi all’irruzione dei pastori, sicché il pastore sardo ha occupato, spesso comprando terre-pascolo sia in Sardegna e sia su vaste zone del continente, in questa grande transumanza sarda ultima e definitiva Oltretirreno. Qualche grande azienda ma molte piccole aziende di produttori più o meno dipendenti, a monte, dagli industriali di mangimi macchinari altro, e a valle interamente dipendenti dagli industriali del formaggio, sono quelle che hanno sempre pagato l’arricchimento dei grandi caseari e le crisi, anche qui cicliche. Poi certo c’erano e ci sono le contraddizioni interne al mondo dei pastori, che posseggono in modo vario le condizioni della loro produzione o dipendono da altri per esse (terra, bestiame, impianti, mano d’opera), con figure vecchie e nuove di prestatori d’opera, servi pastori vecchi e nuovi (e i nuovi servi-pastori sono gli immigrati esteuropei e magrebini). Ma il gran nodo è la dipendenza dalla grande industria e mercato caseari.

Negli anni Sessanta e Settanta la riforma agro-pastorale era uno dei grandi obiettivi del cosiddetto Piano di rinascita che è stato uno dei punti di forza dell’iniziativa politica di un vasto fronte progressista in Sardegna. Perché quell’obiettivo è stato mancato?

Questa mia breve storia della pastorizia sarda del Novecento è una possibile risposta. Il capitalismo della caseficazione e del commercio del pecorino sardo-romano ha tenuto le fila di tutto il processo, mentre i pianificatori nazionali e regionali della Rinascita non paiono aver fatto i conti con le ragioni di quel capitalismo e immaginavano un’uscita da modi “omerici” da cui la pastorizia sarda stava uscendo capitalisticamente da mezzo secolo. Gavino Ledda ha narrato un momento di questo processo come una sua ribellione personale con tratti eroici, ma quella è storia di una generazione di pastori e contadini sardi e più ampiamente mediterranei espulsi in altri luoghi e dimensioni di vita.

In interviste sui quotidiani i pastori dicevano: “Meglio morti che camerieri”. Eppure sono piccoli imprenditori, nel settore turistico se non vogliono fare i salariati potrebbero creare aziende. Perché tanta avversione per il turismo?

Io li vedo avversi a una peggiore forma di dipendenza e di precarietà. Il pastore sardo fino al “conferimento” del latte non è ancora espropriato delle condizioni basilari della sua produzione e della sua vita.

C’è più identità nelle pecore al pascolo o nelle reti telematiche di Tiscali, nel pecorino o nei panini del Mc Puddu’s?

Nel pecorino sardo-romano nessuna identità. Presso Tiscali a Sa Illetta pecore se ne vedono spesso. I pastori in agitazione nei luoghi alti del turismo balneare per me stanno dicendo anche alla McDonald’s che il solo turismo buono è quello buono per chi nei luoghi turistici vive e lavora tutto l’anno.

* Da “Il Manifesto”, 28.8.2010 (a cura di Costantino Cossu)

1 Commento a “Pastori, capitale e identità”

  1. Antonio Meloni scrive:

    Sono figlio di quell’ultima transumanza sarda. Anni duri e meravigliosi. Di una meraviglia di bambino che scopriva che i vecchi del paese andavano in bicicletta o in motorino, non a “cavaddu ‘e molente”, come mio nonno o gli altri vecchi che vedevo, la sera, rientrare in paese. Sembravano eroi stanchi (e forse, in qualche modo, lo erano). I pastori. Anche in “continente” molti cercarono di ricreare quel microcosmo, quel modo di essere. E, spesso, ci riuscirono. Ho trovato più sardità in qualche campagna toscana, certe volte, che a Nuoro, per esempio, dove già alla fine degli anni ’60. I miei coetanei si vergognavano di parlare il sardo. Ancora adesso, quando ci torno, riprovo quel fastidio e vorrei dirgli: “ma perchè non parlate in sardo”?? Siamo isole. ha scritto qualcuno. Qualche volta sarebbe bello essere ponti, navi, strade. Ma non è nel nostro dna. Pronti, sempre, a donare la pecora migliore al pastore (anche se non lo conosci) caduto in disgrazia, ma incapaci di essere imprenditori di noi stessi, della nostra terra e dei suoi prodotti. Il turismo (me ne occupo da 20 anni) può (deve??) essere una delle strade da percorrere, con tenacia, con fantasia e con rispetto per se stessi e la propria storia. Perchè è quello che, sempre di più tutti quanti ricerchiamo quando ci mettiamo il cappellino del turista o del viaggiatore. Un’esperienza. Autentica e non facilmente replicabile. Perchè è la propria. Il pecorino che dovremmo imparare a fare in futuro, forse è quello. Ciao.

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