L’identità dei democratici

16 Ottobre 2010

cubeddu

Mario Cubeddu

Il 16 ottobre 2010 a Ottana il Partito Democratico della Sardegna si riunisce per approvare lo Statuto che regolerà la sua vita nei prossimi anni. L’elezione degli organismi del Partito, lo svolgimento di una normale attività politica, la definizione delle regole di garanzia per i soci e i dirigenti arrivano molto in ritardo rispetto a ciò che è avvenuto nel resto d’Italia, dove già da anni organigrammi e attività sono stati definiti.
Per un lungo periodo la vita del Partito Democratico in Sardegna è stata segnata da una contrapposizione paralizzante che oggi appare sopita ma non è certamente sparita. Sarà proprio il processo di approvazione dello statuto a fungere da cartina di tornasole. Le premesse non sono le migliori. In discussione è innanzitutto l’impostazione stessa del documento, il preambolo che dovrebbe definire il rapporto del partito con la vicenda ormai secolare dell’autonomismo sardo, col tema della sovranità, con la questione del rapporto tra la politica in Sardegna e il contesto italiano ed europeo. Fa impressione sentire un consigliere regionale del PD, che è stato un dirigente della Democrazia Cristiana e poi del Partito Popolare, lamentarsi della resistenza dei suoi nuovi compagni di viaggio a un’impostazione seriamente autonomistica del pensiero e dell’azione del partito in Sardegna. Oggi non può esserci che un PD sardo totalmente autonomo che chiede di federarsi con un PD nazionale.
Se ne parlava già 30 anni fa, non solo nei gruppi politici e sindacali che hanno animato la stagione del neosardismo, ma da parte di voci isolate presenti nella sinistra e nella Democrazia Cristiana, le due esperienze culturali e politiche confluite nel Partito Democratico. Sembra che tutto sia stato inutile, che azioni e parole siano state spese invano. Non c’è alcuna autonomia, mentale, spirituale, culturale, nelle prime parole in cui si dice che il PD della Sardegna “condivide l’ispirazione federale del Partito Democratico nazionale”. Nella frase successiva si parla di una affiliazione ulteriore, in questo caso alla “tradizione autonomistica, federalista e sardista”. Possibile che non si sia in grado di pensare un proprio ruolo nella vicenda storica dei sardi, “popolo tra gli altri popoli”, a partire da se stessi, a partire da una riflessione sul proprio passato?
Con queste premesse risulta difficile prendere sul serio il dibattito sulla riforma dello Statuto della Regione sarda che si va concludendo in Consiglio regionale e aspettarsi da esso dei risultai positivi. Se la questione della sovranità del popolo sardo appassiona poco gli estensori dello statuto del Partito Democratico della Sardegna, le cose cambiano quando si arriva a decidere sui meccanismi di potere. La spinosa questione delle candidature alle cariche pubbliche, a consigliere regionale, come a consigliere provinciale, vede l’affermazione di principio di un metodo delle primarie parzialmente contraddetto dal riferimento ad “altre forme di ampia partecipazione democratica”. Gravissimo poi l’abbandono della non ricandidatura dopo i due mandati per passare ai tre mandati nella carica di consigliere Regionale, Comunale e Provinciale.
Il contrario del rinnovamento e di un’apertura a una larga partecipazione di cui un partito nuovo ha bisogno come dell’aria. Queste esitazioni, queste ambiguità, la persistenza di dinamiche di potere poco chiare stanno già allontanando dal partito persone che avevano visto con favore la sua nascita. Il successo delle primarie è stato realmente una sorpresa per tutti. Ma è apparso subito chiaro che la presenza e la partecipazione dei cittadini è spesso più temuta che auspicata. Il cittadino che si vede respinto ritorna al privato e allo sfogo su Facebook.
Eppure la Sardegna e l’Italia continuano ad aver bisogno di un Partito Democratico forte per battere Berlusconi e la deriva antidemocratica della politica italiana.

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