Le sagre della crisi

16 Novembre 2010

cubeddu

Mario Cubeddu

La stagione delle sagre in Sardegna comincia alla fine dell’estate e si protrae sino ai primi di dicembre. Tra le ultime quella dei vini novelli di Milis, un incontro frequentatissimo soprattutto dai giovani che vi si danno appuntamento per incontrarsi, parlare, bere, fare l’alba nella confusione delle bancarelle e dei fumi sprigionati dalle piastre. Interessante il fatto che tutto questo avvenga senza l’attrattiva di una rockstar da adorare o di un grande scrittore da ascoltare, ma con il solo e autentico richiamo del bicchiere da bere in compagnia degli amici.
Qualche settimana dopo tocca alle Feste dell’olio e in particolare a Prentzas apertas, il 28 novembre a Seneghe, consacrata da tanti premi come la capitale sarda dell’olio d’oliva di qualità. L’aria di festa, le strade piene di gente, l’euforia e l’attivismo attorno  alle bottiglie di vino e di olio, potrebbero indurre all’ottimismo sullo stato delle produzioni agricole e sulle prospettive di sviluppo nei paesi che vivono di agricoltura.
Purtroppo le cose sono più complesse, con forse più ombre che luci.  Certo si è imparato bene, in alcuni ambienti, il linguaggio delle buone pratiche, della sostenibilità, della tutela della biodiversità. Ma le parole sono una cosa e i fatti un’altra. Faceva impressione sentire un dirigente di un organismo dello sviluppo, finanziato dai fondi europei per lo sviluppo rurale, che esponeva i risultati di un’attività che è in corso ormai da più di dieci anni.
Le linee di azione sono state ispirate dalle filosofie e pratiche più avanzate, soprattutto da Slow Food, che ha svolto la funzione di principale consulente tecnico per la progettazione e la realizzazione delle iniziative programmate. E quindi Presidi, Comunità del cibo, orti in condotta, presenza dei prodotti agricoli locali nelle mense scolastiche e negli ospedali. Questa la bellissima cornice di un quadro in gran parte vuoto o con solo poche linee e qualche chiazza di colore.
Le politiche dello sviluppo hanno bisogno di una tensione politica e sociale capace di coinvolgere e mobilitare in uno sforzo di rinnovamento economia e società nel loro insieme. Invece le belle parole continuano spesso ad accompagnarsi con le vecchie pratiche clientelari. E così succede che anche nel piccolo, non solo nell’industria,  vengano finanziate iniziative effimere che durano lo spazio minimo dell’impegno sottoscritto piuttosto che altre che sarebbero state capaci di durare. Capita che le prime siano apparentemente luccicanti e alla moda, proposte da persone ben inserite nei canali del potere in cui scorre la linfa inesauribile dei fondi pubblici.
Le altre invece possono sembrare iniziative di pasticcioni volonterosi che non contano nulla. Anche se poi sono l’espressione autentica della realtà economica e sociale, con i suoi pregi e si suoi difetti.
I pastori  e i contadini che sono scesi in piazza in questi mesi per gridare la loro disperazione sono stati solo sfiorati dalle politiche europee che in questi anni hanno speso in Sardegna centinaia, se non migliaia, di milioni di euro. Le grandi produzioni dell’allevamento e dell’agricoltura seguono logiche segnate da antiche dipendenze e da condizionamenti recenti. Una terra che ospita tra i 3 e i 4 milioni di pecore offre pochissimi formaggi di qualità da proporre al consumo dei suoi abitanti e degli ospiti interessati alla migliore produzione locale. E’ un’impresa trovare frutta, verdura, qualsiasi altro prodotto che contenga il lavoro, il sapere, l’attività produttiva delle nostre campagne.  La perdita è stata immensa, basta pensare alla civiltà del pane, quasi interamente perduta. Non a caso si è parlato di catastrofe. Arduo risalire la china nella situazione di crisi, demografica in primo luogo, spirituale e culturale nella sostanza. Una nuova generazione di giovani  di cultura europea e allo stesso tempo ben inserita nella realtà produttiva delle campagne,  convinta del dovere morale e della opportunità storica di battersi per un grande ideale, la sopravvivenza del proprio popolo,  è la speranza su cui punta chi non vuole arrendersi. Convinti che una buona politica rimane tale anche quando viene sconfitta. Nel frattempo è il caso di concedersi qualche momento di festa e di gioia, nei paesi della Barbagia, a Milis, a Seneghe il 28 novembre.

2 Commenti a “Le sagre della crisi”

  1. Maria Vittoria Botta scrive:

    Bell’articolo, Complimenti. sintetizza molto bene la sensazione che ho avuto le ultime volte che sono venuta in Sardegna (sono sarda ma vivo e lavoro a roma da anni): tante parole, bei programmi scritti bene, centri storici ristrutturati, percorsi del gusto e delle culture ma dietro il sipario la morte delle comunità e delle loro competenze sociali e produttive: il paese era bello ma non c’era gente in giro, tutti rintanati in casa o nelle loro macchine, il “casizolu” tipico del posto non ce l’aveva più nessun allevatore e l’ho dovuto comprare al supermercato (ovviamente era tutt’altra cosa rispetto a quello che conoscevo) per mangiare un sebada decente me le sono dovute fare da sola con la consulenza di una cugina, il che è stato anche divertente, ma in generale ho avuto la proprio sensazione di una cultura e di una società in declino. Per non concludere questo commento con pensieri negativi posso dire che mi piacerebbe rientrare in sardegna e contribure nel mio piccolo con le mie competenze ad ingrossare le fila di quelli che si battono per la sopravvivenza del proprio popolo “a rischio di estinzione”.
    Un affettuoso Saluto. Vittoria.

  2. Michele Podda scrive:

    Un giorno ho incontrato un conoscente che non vedevo da oltre una decina di anni. Mi raccontava di avere un piccolo caseificio a conduzione familiare che forniva prodotti caseari freschi nei vari supermercati e negozi della cittadina in cui viveva e della zona.
    Quando gli ho chiesto se il latte lo prendeva da pastori della zona o da altri del suo paese di origine, si è messo a ridere.
    “Macchè latte, mi ha detto, porto la pasta di formaggio dalla Francia”.
    Faceva male? Tutto oggi spinge a questo risultato. E’ chiaro che c’è qualcosa che non quadra.
    Il formaggio lo cerco presso un pastore fidato oppure, quando riesco, vado all’ovile di amici, compro 100 litri di latte e mi faccio il formaggio, come lo faceva mio padre tanti anni fa.
    Come dice Maria Vittoria, chi vuole sebadas col gusto e con la qualità di una volta, se le dovrà fare. E’ dura ma è così.
    A proposito dell’articolo di Cubeddu, è evidente che pone tanti interrogativi a cui purtroppo non è facile dare risposte; e tuttavia qualche volta, nei nostri paesini dell’interno, con un po’ di fortuna si puo’ ritrovare l’atmosfera e l’accoglienza di una volta; ma non sarà per molto.
    Anche lì si sta per essere totalmente “civilizzati”.

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