Il fiume oscuro dell’odio

16 Dicembre 2010

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Manuela Scroccu

Brembate di Sopra è una comunità tranquilla, un paesone del bergamasco come ce ne sono tanti nel profondo nord.  Gente che lavora e va a messa la domenica e che quando la piccola Yara sparisce è capace di stringersi attorno alla famiglia, perché “non vuole il circo mediatico del caso Scazzi”.  Una comunità unita, che si organizza in squadre di ricerca per aiutare le forze dell’ordine e che non può credere che qualcuno abbia fatto del male a una ragazzina semplice e dolce, brava a scuola e con la passione per la ginnastica artistica. Nelle espressioni della gente inquadrata dalle telecamere dei telegiornali, attirati dall’ultimo succoso caso di cronaca nera, si può leggere la sincera partecipazione al dolore della famiglia, ma anche, più sottile, la convinzione che “non può essere uno di noi”.  Quando i giornali e le agenzie di stampa lasciano trapelare l’indiscrezione che le indagini si stanno concentrando su un giovane marocchino di 22 anni la fobia collettiva e generalizzata nei confronti dello “straniero” riemerge, quasi legittimata dalla gravità delle accuse.  Gente che, fino a pochi istanti prima, partecipava alle veglie in chiesa ha cominciato ad annuire con simpatia a quelle scritte “occhio per occhio, dente per dente” e “marocchini fuori da Bergamo”, comparse nel paese. Il caso di cronaca e il dolore della famiglia della giovane scomparsa hanno cominciato a dissolversi per lasciare spazio al fastidio, alla rabbia, alla paura incontrollata degli “extracomunitari”. L’odio che, come un fiume oscuro e velenoso, sembra scorrere sotterraneo nelle viscere del paese viene spacciato per legittima difesa. Gli immigrati, di cui per qualche mese si era parlato solo per le proteste dalla cima di una gru o di una torre, tornano così a essere tutti delinquenti, assassini, stupratori, da espellere o linciare. Come se tutti fossero simbolicamente responsabili, e colpevoli. La scintilla dell’odio non ha, per questa volta, provocato l’incendio. Non ce n’è stato il tempo, nonostante i proclami di certi leghisti alla Salvini, che gongolava sulla sua pagina Facebook con commenti alla “ve l’avevo detto io”. Mohamed Fikri era il criminale perfetto. Immigrato, musulmano, irregolare, fuggitivo. Inchiodato, apparentemente, da un’intercettazione telefonica che sembrava registrare la sua confessione. Ma era anche un’altra cosa: innocente. Era stato incriminato per una traduzione sbagliata. Non aveva detto: “Allah mi perdoni. Non l’ho uccisa io” ma “Dio, fa che mi risponda”. Non parlava di Yara ma di un suo connazionale che gli doveva dei soldi. Una bella differenza. Non era neanche clandestino Mohamed, lavorava in Italia da cinque anni e il suo datore di lavoro si è precipitato a testimoniare in suo favore. E non era neppure fuggitivo: il viaggio era stato prenotato da molto tempo per motivi familiari. Così Mohamed Fikri, mancato capro espiatorio, è uscito di scena. Non è lui, non c’entra niente con la scomparsa di Yara. In fondo, si dice, è stato un banale errore di traduzione, se vogliamo un’incomprensione culturale. Il fiume d’odio è tornato a scorrere silenzioso nel sottosuolo di questa provincia italiana e il doloroso e composto silenzio della famiglia di Yara ha di nuovo avvolto il paese di Brembate.  Quello che ci resta di questo clamoroso errore giudiziario, che per fortuna si è risolto in fretta, è il disvelamento di dieci anni di strategia politica tesa alla creazione di un “nemico” credibile e sfruttabile in tempi di crisi. Ci sono riusciti grazie all’uso distorto dei mezzi di comunicazione e a un impianto normativo strategicamente teso all’equiparazione dell’extracomunitario, soprattutto se privo di documenti, con il delinquente, quasi come se fosse una caratteristica identificativa della categoria. L’unica ragione per la quale questo governo si ostina a tenere in piedi una legislazione inefficace e ai limiti dell’incostituzionalità è di natura puramente ideologica. Grazie ad essa l’opinione pubblica italiana si è abituata a percepire l’immigrazione come un problema legato alla criminalità e alla sicurezza. La reale consistenza del problema immigrazione nel nostro paese è tutta contenuta nel dispositivo di una sentenza tedesca del 9 novembre scorso: il Tribunale Amministrativo di Darmstadt, capitale dell’Assia, ha bloccato il rinvio in Italia di un richiedente asilo somalo di 28 anni, Y. E. M., perché, si legge, “emergono dubbi fondati sulla capacità della Repubblica italiana di offrire sufficienti garanzie” a chi chiede protezione internazionale. In un altro paese, il ministro Maroni si sarebbe sentito in dovere di riferire in Parlamento ma, negli ultimi tempi, solo la parola nord accostata alla parola camorra ha avuto la forza di farlo vibrare di profondo sdegno. Quei giovani lavoratori immigrati che, nelle scorse settimane, hanno sfidato il freddo salendo su una gru a Brescia e su una Torre a Milano per denunciare l’ingiustizia della loro condizione si aspettavano di provocare la giusta indignazione di un paese democratico. Pochi hanno avuto il coraggio di alzare la testa per incrociare i loro sguardi.

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