Fiat voluntas sua

1 Gennaio 2011

Marchionne

Marcello Madau

Penso sia utile ampliare il campo di lettura del deciso attacco alla democrazia ed alla libertà rappresentato dall’azione di Marchionne, cercarne una collocazione storica. Appaiono, in nuove composizioni e singolari elementi di continuità, forme culturali dalle radici assai antiche e controverse, come democrazia, oligarchia, demagogia, tirannide, libertà.
Sulla natura della democrazia Marchionne opera azioni molto esplicite. Fa approvare a maggioranza, con un violento e demagogico referendum, la piattaforma fortemente autoritaria di Pomigliano d’Arco: ma nel referendum la minoranza si mostra ben più forte del previsto e molto rappresentativa dal punto di vista sindacale. Ecco allora la seconda azione, di questi giorni: un piano di sviluppo sottoscritto da alcuni sindacati – meno rappresentativi ma in compenso allineati – e l’eliminazione dalla rappresentanza del sindacato che non lo condivide. E’ una rottura radicale della forma democratica consueta. La cittadinanza lavorativa non è data per capacità tecniche e per appartenenza al ciclo. Nei fatti, i sindacati consenzienti perdono la loro natura di delegati dei lavoratori per entrare in una sorta di Consiglio di Amministrazione allargato. Questo apparentemente si democratizza, la forma rimane oligarchica e anzi come tale si consolida.
Chi invece perde, e non certo in apparenza, ogni natura democratica è la rappresentanza sindacale, che nel modello Marchionne mostra, di nuovo, la forma oligarchica: vi si partecipa per censo, definito dall’ammissione discrezionale alla cittadinanza lavorativa. Ad essa non appartiene il lavoratore non allineato, in primo luogo – ma non solo – quello FIOM. Solo il licenziamento (Marchionne ci ha provato, ma ha avuto intoppi giuridici), potrà affrancare dal dominio il moderno schiavo.

Vecchi metodi padronali, si sostiene: l’aria è in effetti quella della tradizione, se così la possiamo chiamare. L’immagine suggerita dal versante progressista è “stiamo tornando indietro”; ad esempio agli anni ’50 del Novecento, quando i diritti dei lavoratori erano stabiliti essenzialmente dalla proprietà , ed assumevano un ruolo chiave i cosiddetti sindacati gialli, filo-padronali; vicino a quello odierno di CISL e UIL, che, ricoprendosi di vergogna, sperano di esercitare in maniera evidentemente non democratica una rappresentanza mai raggiunta. Sono queste le nuove regole della rappresentanza in fabbrica?
Naturalmente nessuno dovrà discutere sul ‘cosa produrre’, anche questo un ‘vecchio’ tema da rinnovare, dicendo con la necessaria fermezza a FIAT che la smetta di costruire auto poco piacevoli, inutili ed inquinanti.

Ma non credo che il ‘si torna indietro’ sia un’immagine appropriata, e dovremmo abbandonare una volta per tutte quell’evoluzionismo che non ci permette di capire dinamiche storiche meno ‘lineari’. Il contesto è profondamente diverso. La società italiana e mondiale degli anni Cinquanta è molto lontana. E la maggior parte dei lavoratori e dei senza lavoro non ha conosciuto ‘quei tempi’.
Riflettendo sul cammino che democrazia e libertà hanno avuto nella storia dell’uomo, fra quelle sviluppatesi con la modernità la morfologia più vicina all’azione marchionale, piuttosto che quella del 1789 francese, mi pare quella americana. Una democrazia le cui regole ed enunciazioni formali sono normalmente contraddette dalle esigenze dell’interesse economico capitalistico e della sua più limpida estensione extra-contrattuale che è la guerra. La morfologia americana definisce da subito i confini di democrazia e libertà entro quelli degli interessi e delle classi prevalenti. Se n’era accorto con lucidità nell’Ottocento un grande conservatore come Alexis de Tocqueville; in maniera più diretta e immediata ‘pellerossa’ e schiavi neri. Ciò spiega l’apparente contraddizione fra le enunciazioni di principio e l’esistenza dello schiavismo, o la proclamazione di guerre ingiuste, dove la condivisione a maggioranza della menzogna (le ‘armi di sterminio di massa di Saddam Hussein’) dimostra la fragilità in termini di libertà del prevalere numerico (ecco un altro grande tema: la tensione non sempre componibile fra democrazia e libertà) e in ogni caso il dominio dell’economia.
Mi pare evidente che Marchionne veda l’Italia come una grande ‘gabbia salariale’ che, nel pianeta dell’impero, è rappresentata dalle forme democratiche ereditate dal Novecento, forse non a caso smarritesi dopo il 1989. Lo spazio è quello globale costruito dal capitalismo americano, né l’accordo con Chrysler pare casuale. Nella sua azione possiamo quindi riconoscere una buona coerenza verso il modello democratico a stelle e strisce ad esso proprio, mentre la forza di poter proporre con relativa abbondanza una merce rara come il lavoro permette di riscrivere nuove forme di relazione all’interno dello stesso, che vogliono superare le forme conosciute di democrazia e libertà.
Forse il manufatto culturale ‘democrazia’, nella sua forma occidentale della seconda metà del Novecento, è davvero specchio di un’epoca passata e, per assomigliare meglio a se stesso ed alla sua capacità di ri-definirsi, almeno a sinistra, ha necessità di rinnovarsi cogliendo le sfide attuali in una posizione non esclusivamente difensiva, o ‘passatista’.
Scoprire e costruire nuove forme di democrazia non è operazione che possa prescindere dallo scenario globale del quale questa parte del capitalismo italiano (non tutto, e ciò spiega le non poche preoccupazioni all’interno di Confindustria) si muove.
Come fare ad aggiornare pratiche e scenari nei quali tornino ad avere un senso capacità e possibilità di ogni uomo di decidere? Forse dovremo cercare ancora nel significato di lavoro e di esistenza, concetti basilari, l’uno modificato profondamente, l’altro in drammatico secondo piano.
Intanto se l’accesso e al lavoro e la sua cittadinanza vengono gestiti in forme così tiranniche, è chiaro che esse vanno messe in discussione, e qua non esiste l’autonomia dell’economico o del sindacale, ma il regno vero della politica: un’azione da costruire immediatamente.
Ma dovremo andare verso nuove forme di democrazia legate al diritto al lavoro e all’esistenza, e alla loro connessione con l’ambiente – corrispondenti a platee ben più ampie, che sappiano comprendere migranti, disoccupati, precariato e lavoro cognitivo. Nella ridefinizione della natura del lavoro quest’ultimo ha una rinnovata importanza ed una dimensione assai temuta dal potere: la conoscenza – dalle più antiche storie bibliche alla convinzione leninista che l’operaio dovesse conoscere una parola in più del padrone – è la vera e più sovversiva caratteristica di una democrazia, capace di renderla reale, assieme in modo non separabile al controllo dei mezzi di produzione.
Tutto ciò si dovrà porre, e lo stesso capitalismo lo indica, in scenari allargati, europei e mondiali, mettendo in relazione persone, ceti e classi che da sole o localmente non hanno alcuna possibilità di farcela contro queste tendenze storiche. Non è un caso né una coincidenza che gli stessi i pastori dell’MPS ieri abbiano parlato di coordinamento fra diverse realtà di pastori. E anche che un tale loro lavoro imprenditoriale, imprevedibilmente nomade rispetto al capitalismo prevalente, non sia previsto nella nuova democrazia, che se ne oscuri e neghi la cittadinanza.
Non so come saranno le nuove forme di democrazia generate dalla sfida disperata ed autoritaria proposta oggi dalla globalizzazione capitalistica: ma saranno possibili su spazi molto vasti, unica risposta efficace, assieme al riconoscimento del reddito di esistenza, al vecchio gioco della sacca strutturale di disoccupazione che il capitalismo ben conosce. E solo con alleanze extra-nazionali potranno affermarsi, smascherando la deregulation territoriale che questo modello globale potrà generare ponendosi al servizio, solo apparentemente per assurdo, dei più chiusi egoismi e nazionalismi.

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