Il fascino, discreto, del girocollo

16 Marzo 2011

Gianni Loy

Pomigliano d’Arco, e poi Mirafiori, con i loro “accordi separati”, simboleggiano una fase di regresso del secolare camino che ha caratterizzato quelle che con una formula sintetica  definiamo “conquiste operaie”. Significano, in sostanza, che i lavoratori, così come possono – hanno potuto – migliorare a loro favore le regole del contratto, all’interno della fabbrica, conquistando un miglior trattamento e diritti più incisivi, quel miglior trattamento e quei diritti possono anche perderli. E noi possiamo domandarci come e perché possano perderli, sopratutto se avevamo metabolizzato l’idea che esistono conquiste epocali, frutto, a volte, di lotte di decenni, come le 8 ore, convinti che quella regola per cui la contrattazione, nei suoi diversi tempi e livelli, può migliorare, ma non peggiorare, le condizioni iniziali avesse carattere definitivo. Prima di tentare una risposta, è bene sottolineare le dimensioni del fenomeno. Ribadire che, come si è detto, i recenti accordi hanno un significato simbolico rivolto sia verso il passato che verso il futuro. Verso il passato, perché rappresentano l’esplicita ammissione di quanto, da anni se non da decenni, era già implicitamente riconosciuto e praticato. Il trattamento dei lavoratori, negli ultimi decenni, in Italia, è progressivamente peggiorato, sia in termini quantitativi, posto che il livello retributivo è sicuramente peggiorato rispetto ai massimi raggiunti negli anni ’70 del secolo scorso,  facendo precipitare il salario reale nelle graduatorie  europee, sia in termini qualitativi, intaccando quel corpo di diritti che garantivano “sicurezza” nel rapporto di lavoro ed esponendo, sopra tutto le giovani generazioni, al  calvario della flessibilità, all’incertezza, al precariato. I lavoratori, in altri termini, sperimentano già da anni, sulla loro pelle, una riduzione del salario reale ed una riduzione dei diritti. Non sono certamente gli accordi di Pomigliano d’Arco e MIrafiori ad aver previsto, per la prima volta, la rinuncia a diritti acquisiti. Già centinaia di migliaia di lavoratori (o milioni) negli ultimi anni hanno sopportato una riduzione dei livelli retributivi o son dovuti transitare verso una modifica delle condizioni di lavoro nel senso della flessibilità o verso tipologie contrattuali più flessibili o precarie. Ciò non è avvenuto sporadicamente o in maniera irrazionale. Si è consumato unitamente ad una trasformazione del sistema economico, all’affermarsi delle ideologie che inneggiano al libero mercato, grazie al ridimensionamento dello Stato sociale (welfare) e, quindi, dello schierasi dello Stato (degli Stati – di diversi Stati) a sostegno delle istanze di una economia “competitiva” piuttosto che di quelle provenienti dalle esigenze sociali. Vi è in tutto ciò, una sorta di ritorno alla filosofia del Trattato di Roma, del 1957, dove nacque un’Europa esclusivamente economica, incentrata sul  libero mercato, sulla  concorrenza, sul presupposto che il benessere sociale, semmai, sarebbe potuto arrivare, indirettamente, quale positiva ricaduta della crescita economica. La stessa Unione Europea, molti anni dopo, ha inserito nei suoi programmi l’obiettivo della cosiddetta “europa sociale”, sulla spinta di un forte movimento, anche se ha finito per prevalere l’attenzione ai principi della libertà economica, sino ad una sorta di riflusso, tanto che, recentemente, la Corte di giustizia Europea ha operato una sorta di classificazione gerarchica dei diritti secondo la quale i diritti economici prevalgono sui diritti sociali. Del resto, nella Carta costitutiva dell’Unione Europea non è presente il diritto al lavoro, secondo le tradizioni costituzionali degli Stati del Sud d’Europa, bensì il diritto di lavorare, che è tutt’altra cosa. Tuttavia, il progressivo peggioramento delle condizioni dei lavoratori, sia sul piano retributivo che su quello dei diritti, non è mai stato esplicito. Negli ultimi anni, nei quali ha trionfato l’affermazione della flessibilità, il programma ufficiale è stato quello della cosiddetta flessicurezza (flexsecurity) che, in teoria, dovrebbe combinare l’introduzione di nuove flessibilità con la garanzia della sicurezza. Sicurezza che però, a differenza che nel sistema tradizionale, non verrebbe più garantita nel posto di lavoro (sarebbe, quindi, più facile licenziare) bensì nel mercato, cioè dovrebbe garantire ai lavoratori senza lavoro misure di assistenza, a partire dall’indennità di disoccupazione, e misure efficaci di ricollocazione. Così non è stato, nei fatti, ma l’impegno a favore della “sicurezza” continuava ad essere proclamato e, non di rado, gli “arretramenti” venivano giustificati dalla crisi e ipotizzati   come transitori. Gli accordi di Pomigliano e Mirafiori superano quel sistema, chiudono una fase, perché non sono più giustificati dalla crisi, tantomeno sono temporanei, e presentano il confronto tra le parti del rapporto di lavoro, per così dire, allo stato puro, così come da tempo non si osservava. Lo Stato non c’è più, lascia briglia sciolta al confronto delle parti, diversamente dalla tradizione interventista, e plaude dalle tribune, apprezzando solo l’apparenza di una società multinazionale che si impegnerebbe a non de-localizzare ulteriormente, dopo aver già tanto de-localizzato. Senza entrare nel merito della valutazioni di ordine economico, che meritano una valutazione a sé stante, l’elemento qualificante consiste proprio nel ritorno ad un confronto/scontro allo stato puro, fuori dalle convenzioni e dalle regole che erano state faticosamente elaborate e che avevano portato i lavoratori “dal silenzio alla parola”, per utilizzare il linguaggio simbolico di uno storico francese, Le Goff,  che con quelle parole sintetizza la lunga storia di conquiste dei lavoratori. Gli accordi di Pomigliano e di Mirafiori altro non sono che la fotografia, il dramma del crumiro che, per bisogno, per paura, cerca di superare il cordone stretto attorno alla fabbrica dai compagni di lavoro che scioperano per migliori condizioni di lavoro. Utilizzo il termine crumiri per evocare le modalità dello scontro, con il massimo rispetto per quanti hanno deciso di entrare nella fabbrica, per quanti hanno votato sì, accettando l’imposizione, il ricatto, del padrone. Termine che, a sua volta, non vorrei che suonasse offensivo per i moderni “datori di lavoro”. Gli accordi significano tutto questo, con l’aggravante del venir meno del sistema di regole contrattuali che, bene o male, garantivano un dignitoso sistema di relazioni industriali. Tra i diritti che vengono meno con questi accordi, infatti, son da segnalare anche quelli di natura sindacale, sia collettivi, con l’attacco frontale al contratto collettivo nazionale, sia individuale, con l’impegno a rinunciare all’esercizio dei diritti sindacali nel momento in cui possano entrare in  rotta di collisione con i contenuti degli accordi stessi.  L’allusione è al rischio che l’esercizio del diritto di sciopero “contro” i contenuti dell’accordo recerpito nel contratto individuale di lavoro possa comportare sanzioni disciplinari. Per tutto questo gli Accordi di Pomigliano e Mirafiori segnano la fine di una fase con la definitiva affermazione che i contenuti del contratto di lavoro non possono che corrispondere ad uno schietto rapporto di forze, senza se e senza ma, senza più l’intermediazione di uno Stato che si pretendeva sociale, tra i soggetti del contratto ed i loro rappresentanti, i sindacati,  che, proprio  per la durezza dello scontro, non riescono più a mantenere  l’unità e si dividono e si contrappongono come mai si era visto nel recente passato. Gli Accordi, per lo stesso motivo per cui chiudono una fase di lento declino, aprono anche una fase nuova. Offrono al mercato un modello cui tutti, d’ora in avanti, potranno accedere, fondato sulla possibilità, per le imprese, di contrattare anche al ribasso tutte le volte che il proprio potere contrattuale lo consenta loro. In questo senso, gli Accordi di Pomigliano e di Mirafiori, hanno il “merito” di aver abbattuto le regole formali che, ancora, non consentivano una generalizzazione di questo nuovo modello. Modello che, paradossalmente, rivaluta quel referendum che, gli stessi sindacati, avevano sinora maneggiato con cura e con cautela. La differenza tra il prima ed il dopo, in definitiva, ed a mio avviso, sta nel fatto che gli accordi precedenti a Pomigliano e Mirafiori che comportavano rinunce per i lavoratori venivano avvertiti come eccezione, magari impostati alla transitorietà, senza mettere in discussione il sistema delle regole, ora il semplice mutamento dei rapporti di forze legittima la messa in discussione dei contenuti del rapporto di lavoro in assenza di qualsiasi paravento e senza alcun bisogno di giustificazione che non sia quella della dimostrazione della forza necessaria a raggiungere l’obiettivo. Questi accordi, in definitiva, aprono la strada ad attacco frontale ai diritti dei lavoratori in nome della competizione economica. Queste osservazioni, peraltro, devono esser considerate alla stregua di un preambolo. Ammesso, infatti, che lo Stato sociale non sia in buona salute e che la bandiera dell‘ideologia sventoli in altra direzione, la progressiva perdita di potere contrattuale, la perdita del salario reale ed il ridimensionamento dei diritti è indubbiamente legato a quel mutato rapporto di forza che caratterizza il nostro periodo storico.
Anche a questo proposito si potrebbe aprire un lungo capitolo, posta la complessità dei fenomeni che caratterizzano la nostra modernità. Mi limito tuttavia, ad individuare un solo fattore, quello più strutturale, determinato, a mio avviso, dalla sproporzionata crescita dell’esercito di riserva. Non più, non solo, per la crescita del numero dei disoccupati nel mercato interno, ma per l’affacciarsi di un insieme di fattori che, nel complesso, espandono oltremisura la platea dell’offerta di lavoro. Essa infatti è oggi rappresentata da ulteriori fattori, quali la possibilità per le imprese di de-localizzare le produzioni per beneficiare di più bassi costi del lavoro (dovuti non soltanto al salario), dalla possibilità di avvalersi di manodopera immigrata, dall’allentamento delle rigidità derivanti dalle regole del mercato del lavoro. Se si vuole, anche dall’allentarsi dei vincoli di solidarietà tra le diverse componenti della società, in quanto fa venir meno il sostegno alle forme di resistenza dei lavoratori organizzati. Tutto ciò è formalmente sancito dalle nuove regole del mercato internazionale che quasi criminalizza, le forme di resistenza alla libertà transnazionale dell’impresa. Consentitemi di richiamare un recente caso (Ruffert) che si è concluso con una significativa sentenza della Corte di Giustizia europea: Un Land tedesco aveva inserito, tra le condizioni per l’aggiudicazione dei lavori per la costruzione di un penitenziario, la clausola secondo cui l’impresa aggiudicataria si impegnava a rispettare i contratti collettivi ed a corrispondere ai lavoratori un salario non inferiore ai minimi stabiliti dal contratto collettivo che regola il settore. L’impresa aggiudicataria, tedesca, aveva però subappaltato una parte dei lavori ad un’impresa polacca. Quest’ultima non aveva rispettato la clausola dell’appalto ed aveva corrisposto ai propri dipendenti un salario inferiore, meno del 50% rispetto ai minimi contrattuali indicati nell’appalto, Il Land, di conseguenza, come ci sembrerebbe logico, aveva risolto il contratto per inadempimento. La Sentenza della Corte di Giustizia, invece, ha ritenuto che sarebbe stato violato un principio fondamentale della libertà di circolazione proprio mediante l’imposizione di una clausola volta a garantire un trattamento minimo per i lavoratori. Tale obbligo, secondo la Corte, stiamo attenti alle parole, “farebbe perdere alle imprese in parola il vantaggio concorrenziale a loro favore e rappresenterebbe un ostacolo per le persone fisiche o giuridiche provenienti da altri Stati membri diversi dalla Repubblica federale di Germania”. La Corte di giustizia, in sostanza, in tal modo, eleva a principio ed esalta il diritto alla concorrenza sleale. Detto in termini ancor più espliciti, con le parole dell’ex presidente della Corte costituzionale spagnola: il dumping sociale, cioè la ricerca di vantaggi competitivi realizzati mediante l’abbassamento dei costi, beneficiando delle libertà riconosciute dal diritto comunitario, è legittimo. Il dumping sociale, in definitiva, fa parte del nucleo duro del diritto alla libera circolazione riconosciuto agli operatori economici! Una crescita smisurata dell’esercito di riserva, in sostanza, supportata dall’ideologia dominante, trasferita nelle sue regole giuridiche. Alla crescita di questo nuovo, immenso, esercito di ricerca, contribuisce, infine, una fase economica caratterizzata dagli effetti della evoluzione tecnologica che tende a ridurre la quota di manodopera richiesta per la produzione sino ad imporre la continua distruzione di beni al solo scopo di poter mantenere attivo, in non pochi settori, il sistema produttivo. In questo contesto, la capacità di resistenza dell’offerta di lavoro organizzata è veramente esigua. Non so se Machionne, alla fine, deciderà mantenere aperte le fabbriche in Italia  o di trasvolare, ma la prima ipotesi non è affatto peregrina. Una volta domata la capacità di resistenza della classe operaia, una volta ridotte le retribuzioni ed i diritti dei lavoratori, nel solco indicato dai recenti accordi, la rinuncia alla de-localizzazione potrebbe persino  convenire. La forbice del costo del lavoro tra i vecchi ed i nuovi stati membri dell’Europa, infatti,  tende a diminuire e la corsa a quel far west, almeno in relazione ai nuovi Stati membri, sta perdendo fortemente il suo fascino. Fiaccata, indebolita, come potrà reagire quella che un tempo chiamavamo la classe operaia? Come, se anche molti dirigenti della sinistra sono affascinati dal girocollo di Marchionne?

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