Ritorno di Fiom

16 Marzo 2011

Gabriele Polo

Apriamo il numero speciale del manifesto sardo sul tema ‘Lavoro’ con un’intervista di Gabriele Polo al segretario generale della Fiom Maurizio Landini*. L’ intervista è parte del libro «Ritorno di Fiom» di Gabriele Polo, edito dalla casa editrice «manifestolibri» che sarà in libreria dalla prossima settimana.

«In un certo senso l’attenzione mediatica di queste settimane mi fa un po’ di rabbia, perché divento  ‘noto’ quando i lavoratori Fiat stanno peggio, quando i loro diritti vengono messi in gioco. La cosa mi fa girare le scatole, ma poi mi consolo accorgendomi che questa faccia serve solo a raccogliere l’appoggio che la Fiom ha attorno a sé, come quando incontri la signora che scende in piazza perché – dice –  gli operai sono gli unici a rivendicare dignità in un paese che l’ha persa». Se è vero che a cinquant’anni ognuno ha la faccia che si merita, quella di Maurizio Landini corrisponde a ciò che vuole essere l’organizzazione di cui è segretario generale da nemmeno un anno: «Non bisogna avere paura e battersi per difendere le proprie idee anche quando non sai come va a finire. Questo ci hanno insegnato Claudio e Gianni, segretari generali prima di me, la necessità di osare, di rischiare». Una lezione rilanciata  dai lavoratori di Pomigliano e Mirafiori, trasformando la Fiom in una sorta di rifugio di massa, gettando questo cinquantenne emiliano sulla ribalta, quasi una star politica e mediatica. «Ma sapendo che tutto questo ambaradan mediatico prima o poi finisce. E, quindi, volare un po’ bassi».

Come si diventa segretari generali della Fiom partendo da una fabbrica?
Ho iniziato a lavorare a 15 anni, prima in un’azienda artigiana e poi in una Cooperativa metalmeccanica di due-trecento addetti, la «Ceti» di Reggio Emilia. Ero saldatore, facevamo  impianti industriali. La scuola l’ho lasciata, dopo il biennio per geometri, perché a casa non c’erano più soldi – eravamo cinque figli, l’unico reddito era quello di mio padre, operaio cantoniere. Al sindacato mi sono iscritto quasi subito, all’Flm che era il sindacato unitario dei meccanici. Sono stato eletto delegato nell’82 e dopo un paio d’anni mi è stato proposto il distacco sindacale, proprio nel momento in cui finiva l’esperienza unitaria dell’Flm. Da lì ho iniziato un percorso tutto dentro la Fiom: funzionario di zona a Reggio Emilia, nel 91 segretario provinciale di Reggio, nel ‘99 regionale dell’Emilia Romagna. Dal 2001 al 2005 segretario di Bologna, nel 2005 mi sono trasferito a Roma, in segreteria nazionale… E ora sono qua.

Mai tornato nella fabbrica in cui hai lavorato cinque anni per vedere com’è cambiata?
Dentro mai – anche se sono ancora un dipendente dei quella ditta, in aspettativa sindacale. Mi capita di parlare con i miei compagni di lavoro d’allora, alcuni dei quali sono ancora lì. E mi raccontano che è  tutto diverso. La Cooperativa ha cambiato natura, come quasi tutte le cooperative. Ora l’attività si appalta e i dipendenti della Cooperativa non fanno più direttamente i lavori che noi facevamo trent’anni fa, dirigono le operazioni di una lunga filiera di appalti e subappalti. Io  ho iniziato a fare sindacato diventando delegato proprio nel cantiere in cui la Cooperativa stava lavorando in quel momento, eletto per una ragione concretissima: avevamo freddo e volevamo lavorare meno. Oggi sarebbe impossibile… è tutto esternalizzato, l’azienda si è fusa con una ditta edile e in quel settrore il subappalto è la regola.

Perché hai continuato a fare il sindacalista? che cos’è che ti è piaciuto?
Il contatto con le persone. Ho iniziato a occuparmi di piccole imprese. 50, 100 lavoratori e il rapporto con loro era diretto, ci si occupava di cose concrete e verificabili per tutti. Ho imparato molto da quei lavoratori e da quei delegati, mi sentivo parte di una comunità in cui crescevo. Perché la cosa più straordinaria per un sindacalista è apprendere, scoprire quanto sapere ci sia nelle persone che lavorano, partecipare a un «racconto collettivo» e la forza di un sindacato nasce quando riesce a mettere insieme queste conoscenze. Così capisci subito l’importanza di un lavoro collettivo, il perché un singolo lavoratore, da solo, non è in grado di risolvere i suoi problemi e solo se mette le sue conoscenze insieme a quelle degli altri ricostruisce un senso al lavoro e alla sua presenza in fabbrica.

Hai firmato più contratti o hai detto più volte no?
Sicuramente firme che rotture. E quasi sempre dire no mi è servito per poi firmare un contratto. Migliore, naturalmente.

Tu vieni da una zona che ha una storia importante per la sinistra italiana. Quali tessere di partito hai avuto?

Beh, lì si andava quasi in automatico, la mia prima tessera è stata della Fgci. Mio padre, mio fratello più grande… tutti erano iscritti al Pci e al mio paese – San Polo d’Enza, vicino a Canossa – o si andava in sezione o si andava in parrocchia. Io son cresciuto in sezione. Dall’adolescenza son sempre stato iscritto al Pci, poi al Pds, poi ai Ds. Quando hanno deciso di fare il Pd, mi son schierato contro e non ho più preso la tessera.

Quando sei arrivato in segreteria nazionale, come hai trovato la Fiom?
Bella. Con una forte identità, fatta di democrazia e autonomia. Una Fiom che ha un’idea precisa del proprio mondo, che ha delle cose da dire e sa cosa fare. In una situazione difficile, perché in questi anni il tentativo è sempre stato quello di mettere in discussione il senso stesso del sindacato, il diritto a contrattare le condizioni di lavoro, anche sul piano politico, basti pensare che in questi ultimi 15 anni il governo è intervenuto, in accordo con Confindustria, per modificare con delle leggi i rapporti di forza, le condizioni di lavoro e  il ruolo del sindacato. Mentre gli interessi dei lavoratori non hanno alcuna rappresentazna politica. Quando ho iniziato a fare il sindacalista c’erano delle forze politiche – in primo luogo il Pci – che affermavano esplicitamente di voler rappresentare i lavoratori, si proponevano come sponda istituzionale di una parte del paese. Oggi questo non c’è più, tutto si è rovesciato anche sul piano culturale e l’impresa sembra essere il riferimento generale.Così si vuole mettere in discussione l’esistenza stessa di un sindacato di questa contratta la condizione del lavoro. La Fiom – in questi anni – ha tentato di costruire un suo punto di vista sui processi in corso, a partire dalla gravità di crisi che possono portare alla cancellazione del sindacato e del lavoro come soggetti autonomi.  La democrazia, il potere dei lavoratori di decidere sui loro contratti e sugli accordi che li riguardano, è stata il nostro tratto distintivo e la nostra pratica quotidiana.

Ma perché la democrazia, che dovrebbe essere scontata, diventa difficile e discriminante, al punto da provocare rotture tra i sindacati?

Perché il diritto delle persone di poter decidere e votare sempre non rientra nella tradizione del nostro movimento sindacale. C’era un’unità d’azione tra le confederazioni sindacali che considerava le organizzazioni il tramite di rivendicazioni e decisioni. Per questo in Italia non esiste una legge che garantissca i diritti democratici dei lavoratori e quando è andato in crisi il rapporto unitario tutti i problemi sono esplosi. Il punto è: che si fa in caso di opinioni diverse tra le organizzazioni? La risposta di questi anni sono stati gli accordi separati, e sono le imprese a decidere con chi farli. Ma la democrazia è difficile da realizzare anche perché quando le lavoratrici e i lavoratori votano, non giudicano solo gli accordi ma anche i sindacalisti. Cosa pericolosa per strutture sindacali che, alla fine, ne hanno paura. Eppure la democrazia è decisiva per la costruzione di un punto di vista, soprattuto se si vuole indipendente dalla controparte e dalle vulgate correnti. Quando ho iniziato a fare il sindacalista, il punto di vista in Cgil era costruito dalle «componenti» di partito: quella comunista, quella socialista.. c’era pure la «terza componente», nata nel ‘68-69. Sciolte quelle – ed è un bene che sia successo – è rimasto un vuoto che può essere occupato solo con un di più di soggettività sindacale basata sul coinvolgimento di chi si vuole rappresentare. Oggi, poi, con la crisi dei partiti e il venir meno dell’antica divisione di ruoli tra sindacato e politica – tra rivendicazione sociale e progetto generale – il sindacato inevitabilmente deve avere un suo punto di vista sull’intera società, altrimenti finisce per fare il notaio dell’esistente. Per questo serve la partecipazione democratica dei lavoratori: un punto di vista non nasce dal cervello di Minerva…

E qual è l’idea generale del mondo della Fiom?

La pari dignità tra lavoro e impresa, almeno come punto di partenza. In prospettiva giustizia sociale e solidarietà, ma oggi come oggi, perlomeno il riconoscimento che il mercato e l’impresa non sono tutto. Si pensi all’ultima vicenda Fiat: Marchionne, in modo esplicito, vuole cambiare la natura del sindacato in questo paese, pensando che questo rientri nelle competenze aziendali. In Italia è sempre esistito un sindacato confederale generale basato sulla solidarietà come valore costitutivo: per questo un metalmeccanico ha dei diritti e un contratto nazionale a prescindere da dove lavora. Se si accetta la logica del sindacato aziendalista e corporativo di Marchionne, con gli obiettivi dell’azienda che diventano i tuoi obiettivi, il sindacato diventa «di mercato» e ha come orizzonte e pratrica solo l’impresa. Quella specifica impresa. E’ la fine del vincolo solidale, fuori dall’azienda sono tutti avversari e concorrenti. Questo abbiamo percepito fin dalla metà degli anni ‘90: la globalizzazione se non veniva bilanciata da un’estensione dei diritti, se non si ponevano dei vincoli sociali al mercato, saremmo andati incontro a un conflitto orrizontale che cancellava il sindacato. Tantopiù ciò vale oggi, di fronte al fallimento di quel modello liberista e alla crisi che ha prodotto.

Prima parlavi dell’identità Fiom. L’accusa che vi viene fatta è di fare politica e non sindacalismo, di essere settari.

Avere un’identità precisa non è un elemento di debolezza, ma di forza. La nostra è una comunità di persone che si riconoscono tra loro ma non pensiamo di essere autosufficienti. Di fronte ai processi globali che avanzano abbiamo sempre pensato – per esempio nel 2001 – di dover allargare la rappresentanza anche al di là della classica fabbrica, perché la precarietà e la frantumazione dei processi lavorativi ci riguarda, cambia la stessa categoria. Non possiamo non occuparcene. Quando ho iniziato a lavorare, nella mia ditta eravamo tutti dipendenti della Cooperativa, dal portiere al progettista, tutti avevamo gli stessi diritti e lo stesso contratto e come delegato li rappresentavo tutti: se ottenevo una cosa nel contratto aziendale, valeva per tutti. Oggi quella stessa ditta gestisce una serie di appalti che spezzettano tutto in tante «giurisdizioni» e condizioni particolari. Il problema è come unire queste diverse forme del lavoro e come coinvolgere altre esperienze, altri saperi che partecipano alla «costruzione» di uno stesso prodotto. Ma per far questo bisogna avere una precisa idea di ciò che si è e dei propri valori. E’ questa forza che permette di non chiudersi: la chiusura, i settarismi nascono dalle debolezze e dalle paure. E’ fondamentale che ci sia una relazione tra l’accordo che fai o non fai in una fabbrica e come questo si colloca nel «mondo». Tenere assieme questi due aspetti è l’identità della Fiom. Che un sindacato possa avere una sua idea di come è e come dovrebbe essere il mondo e su quella base si rapporta con tutti i soggetti – organizzati e no – non è un problema ma una risorsa. Se questo è fare politica, allora sì, facciamo politica. In realtà facciamo sindacato, la stessa contrattazione  fine a se stessa non è mai stata l’ambizione della Cgil… Può bastare un commercialista.

A proposito di politica, qual è il vostro giudizio sui partiti?
In questi anni, e in particolare durante l’ultime vertenza Fiat, sono emersi tutti i ritardi e tutte le rotture tra la politica e i lavoratori. Se molti non vanno più a votare o se tra i nostri iscritti tanti votano per Berlusconi e la Lega è perché la politica e i partiti non si pongono più da tempo il problema di rappresentare chi lavora. Di più, sono state fatte molte analisi sbagliate sulla realtà. Prima del referendum di Mirafiori abbiamo chiesto un incontro a tutte le forze politiche, alcuni non ci hanno risposto (dall’Udc alla Lega al Pdl), gli altri li abbiamo incontrati per capire se avessero capito la portata di quanto stava accadendo, che erano in gioco diritti e libertà fondamentali. Non abbiamo ricevuto risposte molto confortanti, anche se, perlomeno, ora c’è un po’ più d’attenzione per i problemi del lavoro. Ma la cosa che mi ha colpito di più in Fassino quando ha detto che se fosse un operaio di Mirafiori avrebbe votato sì, è il modo vecchio di affrontare il problema, il  pensare che non stia cambiando nulla e che, in fondo, si tratta di fare qualche sacrificio in presenza di una crisi industriale. Questa a me sembra una subalternità culturale di chi non capisce ciò che sta avvenendo, che non si rende conto nemmeno che la politica deve affrontare una dimensione globale, ad esempio porsi il problema di condizioni di lavoro tanto diverse dentro uno stesso contesto continentale. Perché nella costruzione europea qualche idea precisa su tutto questo bisognerà pur averla. E’ in questo vuoto di idee che è cresciuta la percezione tra i lavoratori che non esista  per loro – nessuna reale differenza tra destra e sinistra. E chi frequenta un po’ i lavoratori del  nord-est si accorge subito che per loro la scelta non è tra destra e sinistra, semmai tra pagare più o meno tasse, accettare lo straniero o cacciarlo.

Un bel problema questo vuoto politico anche per un sindacato…

Certo, perché il consenso che abbiamo avuto in queste settimane ha costruito un’aspettativa molto forte nei nostri confronti, forse superiore alle nostre forze.  La sinistra non dovrebbe chiedersi perché molti iscritti Fiom votano a destra ma semmai perché quegli operai non votano più a sinistra.  La crisi della rappresentanza riguarda anche il sindacato, perché mentre è aumentato il numero delle persone che devono lavorare per vivere, gli iscritti al sindacato sono diminuiti. Trent’anni fa l’Flm aveva più di un milione di tesserati su due milioni di metalmeccanici, oggi Fim, Fiom, Uilm insieme non arrivano a 600.000, mentre il numero dei lavoratori non è diminuito di molto. Questa desindacalizzazione è un dato omogeneo in Italia e in Europa. Per questo porsi il problema della difesa della contrattazione  collettiva come punto di mediazione sociale è decisivo anche per la democrazia. Ma ci vuole una certa idea di sindacato, che si rivolge a tutti e cerca di rappresentare tutti, che si muove a livello europeo. E bisogna partire dai «fondamentali», stare in fabbrica e sul territorio.

Magari tornando a «staccare i bollini» mese per mese per l’iscrizione?

Si, anche, il rapporto deve essere diretto. Noi siamo stati credibili perché – si vinca o si perda – noi siamo sempre lì con loro. Questo è quello che ci viene riconosciuto. Le persone che lavorano ti devono sentire come uno di loro, poi possono anche non essere d’accordo e persino litigare, ma solo con una relazione diretta si possono costruire le condizioni per cambiare.

Torniamo alla Fiat. E’ molto più piccola di un tempo – oggi in Italia ha tanti addetti quanto la sola Mirafiori trent’anni fa – eppure continua a pesare così tanto. Perché?
Perché rimane la principale italiana, ha una dimensione internazionale e un grande potere politico e mediatico. E anticipa i processi. Non è che i problemi che Marchionne dice di avere non siano veri. E’ vero che oggi la competizione internazionale è spietata, che ti piomba addosso la Cina, il Brasile, l’India. Che un miliardo di lavoratori senza diritti vengono messi in competizione con quattro-cinquecento milioni che i diritti ce l’hanno. Tutto vero. Il punto è che risposte si dà a questi problemi e qual è il modello sociale per farvi fronte. Per esempio cosa produci, che senso ha farlo e come lo fai. Ecco, in un gruppo come la Fiat questi nodi, che determinano scelte di carattere generale, arrivano al pettine molto prima che nella piccola impresa. Ciò che avviene lì tende a spostarsi fuori, fa scuola. Come l’ipotesi di uscire da Confindustria per non dover applicare il contratto nazionale: in un paese in cui il 90% delle persone lavora in imprese con meno di 15 dipendenti cancellare il contratto nazionale diventa eversivo. Questo è una via d’uscita dalla crisi che si allontana dal ‘900 per tornare all’800, quasi a un rapporto feudale. Come ha spiegato Umberto Romagnoli, quando il diritto del lavoro non esisteva, il padrone chiamava il lavoratore cui veniva letto a voce il suo contrattoi e bastav che il lavoratore accettasse l’impiego per accettare   quelle condizioni, in un rapporto «fiduciario» con il padrone. Oggi i lavoratori di Pomigliano e Mirafiori vengono chiamati uno a uno per firmare un nuovo contratto individuale, altrimenti non lavoreranno. Non è una svolta storica, una regressione, tutto questo?

Ma la Fiat e la grande impresa sono ancora la struttura portante dell’industria italiana?
Da noi sono state dismessi tutta una serie di settori avanzati. L’unico settore ad alto valore aggiunto  che ha tenuto un po’ sono le piccole medie imprese – 500, 1000 addetti – di meccanica di precisione che sono riuscite a innovare i prodotti. Ma a livello di fondo – tantopiù in una situazione in cui devi affrontare il livello alto dei problemi, dalla sostenibilità ambientale al senso del prodotto – noi siamo messi malissimo, a partire dall’inesistenza di qualunque politica pubblica, cosa che i principali paesi europie hanno. Serve una nuova dimensione dell’intervento pubblico, dell’agire della politica e dei vincoli sociali su come e cosa investire. Servirebbe una politica industriale per indirizzare innovazione e ricerca, perché altrimenti la nostra struttura basata essenzialmente sulla componentistica rischia di saltare. Ma in Italia ci si occupa di altro…

Ecco, l’Italia. Com’è questo paese del bunga-bunga?
Impressionante, soprattutto nella sua regressione sul terreno dei valori. Se nel ‘92-93, ai tempi di tangentopoli c’è stata una reazione che sembrava poter annunciare una stagione di moralità pubblica, oggi, vent’anni dopo, constatiamo che il livello di corruzione è aumentato, non diminuito. Anche il fatto che in molti considerino normale le «gesta» di Berlusconi è agghiacciante. Anche perché quel tipo di comportamenti è largamente diffuso nelle classi dirigenti e nel mondo politico, come tutti sanno da tempo, ma le si considera pratiche normali. Se un tempo si denunciava che il sud era in mnao a camorra, ‘ndrangheta e mafia, ora si potrebbe dire che l’unica unità reale del paese è la gestione malavitosa di un pezzo strutturale della nostra economia, ad esempio sul sistema di appalti e subappalti, da nord a sud. E se un tempo il lavoro era considerato un diritto oggi è passata la cultura del favore, un favore che qualcuno ti dà, devi ringraziare chi te lo dà e guai se lo rivendichi come diritto.

Un sindacatò deve proporsi anche una ricostruzione morale?
Secondo me si, deve farlo. Certo è più comodo fare gli enti bilaterali e occuparsi di servizi.Ma un sindacato che aiuti a fare le dichiarazioni dei redditi o le pratiche per la pensione esisterà sempre, mentre se tu vuoi ricostruire un livello di azione collettiva e solidale devi essere sul campo e affronate i problemi che ci sono. Ad esempio penso che di fronte alle ingiustizie che ci sono devi ripensare le forme di stato sociale costruite in questi anni. Anche le forme di distribuzione del reddito.

Questa è una novità, il segretario generale della Fiom che apre a forme di reddito non legate al lavoro, al «reddito di cittadinanza».

Di fronte alle ingiustizie sociali, che crescono, ti poni il problema di cosa fare o no? Io parto anche da un’esperienza personale: non ho studiato perché son dovuto andare a lavorare perché a casa non ce la facevamo; se guardi quel che succede oggi ti rendi conto che se le cose non cambiano saranno sempre meno i lavoratori che potranno mandare i loro figli all’università. E poi siamo di fronte a un grado di precarietà che non ha precedenti: ognuno di noi ha in casa un precario, un disoccupato, un sottoccupato, un interinale. Questo è l’elemento caratterizzante della nostra quotidianità ed è un’ingiustizia. Di fronte a ciò ti devi porre il problema di rappresentare quei loro problemi, di cercare soluzioni, altrimenti le persone saranno sempre più sole e diventeranno sempre più cattive.

Ma un reddito che garantisca chi non ha un lavoro, non contrasta con il lavoro come fulcro della cittadinanza?

Anch’io per tanto tempo ho pensato che se uno non lavora non c’è ragione perché debba essere pagato. Però oggi se vuoi combattere la precarietà dieventa importante coinvolgere tutti e dare la possibilità di cambiare un lavoro come possibile diritto delle persone. Si può fare in tanti modi, lo si può agganciare alla formazione, al diritto di poter cambiare lavoro e sempre tendendo alla piena occupazione.

Questa costruzione di contenuti, obiettivi e culture, dove le facciamo? Quali sono i luoghi d’incontro?
Oltre al lavoro penso che anche il territorio sia un luogo su cui costruire un pensiero alternativo. Per esempio quando Marchionne dice che o si fa come vuole lui o porta via tutto, dimostra di sbattersene della storia, del sapere e delle condizioni di Torino. Mentre noi dobbiamo rivalorizzare i saperi del territorio, mettendo assieme intelligenze per costruire l’alternativa. Ed è urgente perché questi processi di crisi non sono finiti, anzi. E non ci si può limitare alle resistenze, servono alternative e pratiche. Nel venir meno dei luoghi collettivi ci siamo ritrovati tutti soli e questo ha anche aumentato il tasso di violenza individuale: anche nelle assemblee ormai c’è un’aggressività che non avevo mai visto prima, prodotto delle tante paure della vita quotgidiana. Così ce l’hai col mondo intero, nessuno ti capisce o ti aiuta, ti devi salavare da solo e a tutti i costi. Un sindacato e una forza politica devono intervenire su queste solitudini, altrimenti non potranno  rappresentare niente e nessuno.

Un tempo i luoghi d’incontro erano i partiti di massa. Oggi?

Oggi non ci sono più, ma c’è una forma nuova della politica con cui fare i conti. Perché la domanda di democrazia non è un’invenzione come il bisogno di partecipare dei cittadini. La nostra Costituzione si fonda sull’assunto che le organizzazioni sindacali e politiche possono rispondere, canalizzare e interpretare la partecipazione alla vita pubblica. Oggi non è più così semplice e le persone devono avere davvero la possibilità di decidere, partecipare, scegliere. Mentre la politica non risponde sufficientemente a queste domande. Guarda anche uno strumento relativamente nuovo come le primarie: sono una forma di partecipazione, ma molto indiretta e personalistica, perché deleghi uno ma non costruisci luoghi di partecipazione, verifica, dove chiedere ai «delegati» di render conto di ciò che fanno. Insomma, bisogna ricostruire un senso di agire collettivo, verificabile.

Poiché ognuno risponde direttamente di quello che fa, c’è questa partecipazione in Fiom e tra  essa e i lavoratori che vuole rappresentare?

Questa pratica è quella che ci ha permesso di reggere in tutti questi anni. Nei primi accordi separati che sono stati fatti abbiamo dovuto dimostrare fabbrica per fabbrica di essere rappresentativi, visto che gli altri andavano avanti comunque, sfidandoci sul piano della rappresentanza. E per reggere devi essere radicato tra la gente, devi costruire un rappporto con le persone. Sono almeno dodici anni che stanno provando a farci fuori. Abbiamo retto, ma adesso dobbiamo fare di più. Ora apriamo una consultazione straordinaria nei luoghi di lavoro, per costruire dal basso una piattaforma rivendicativa condivisa. Una prima fase di discussione molto aperta per valorizzare tutte le esperienze che avvengono nelle fabbriche per poi arrivare a una proposta compiuta. Una costruzione democratica che si deve avvalere di tutte le competenze esterne di chi ritiene importante le lotte che i lavoratori stanno facendo. Una rivendicazione generale che valga per tutta la categoria, facendo i conti di cosa vuol dire oggi una politica industriale socialmente utile anche per il territorio. Saranno i lavoratori a decidere ma alla fine di una costruzione collettivo che coinvolge anche l’esterno dei luoghi di lavoro e della Fiom.

Sta diventando sempre più un progetto generale… Volete rubare il mestiere alla Cgil?
Ma noi siamo della Cgil. Stiamo facendo un’azione confederale, non aziendalista né corporativa. Siamo un sindacato di categoria ma con una visione generale, confederale. Quel che sta succedendo a noi non riguarda solo i meccanici, ma i processi alla Marchionne rischiano di coinvolgere tutto il lavoro, privato e pubblico. Di fronte a questo è sufficiente tentare di contenere i danni oppure serve una strategia politico-sindacale che rovesci questa situazione?

Magari in Cgil pensano che cambiando il governo cambi tutto…

Beh bisognerebbe ricordare che oggi stiamo pagando una certa subalternità del sindacato alle forze politiche, in particolare rispetto ai governi di centrosinistra. Il sindacato deve tornare a fare il suo mestiere in piena autonomia e non lasciare a nessun altro la rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Poi c’è un problema di democrazia anche nel sindacato, condizione per qualunque processo unitario. Perché se si riduce l’unità sindacale a una questione di relazioni tra le organizzazioni, non si è all’altezza di questa fase. La democrazia va assunta come discriminante anche nella vita interna del sindacato e nel suo rapporto con i lavoratori.

Vorresti i consigli di fabbrica al posto delle Rsu?
Beh sì, se oggi bisogna rilanciare la contrattazione colletiva gli strumenti che abbiamo sono inadeguati, perché troppo pesante è la mediazione dalle organizzazioni. Se ci sono .000 operai che lavorano sulla catena di montaggio e la struttura delle Rsu prevede 4 o 5 delegati è ovvio che questi delegati non possono rappresentare e gestire una contrattazione che parta dalle condizioni di lavoro. Perché le Rsu hanno sì la titolarità contrattuale, ma per come sono elette non sono adeguate: il delegato viene eletto in un collegio unico, non rappresenta il suo reparto e non risponde ai suoi compagni di lavoro. Per questo vanno ripensate le regole della rappresentanza.

A proposito di rappresentanza cosa vi hanno insegnato gli studenti e i ricercatori in questi mesi?
Almeno due cose. La ritrovata capacità critica di leggere ciò che sta succedendo, la coscienza che   la precarietà è il risultato di un modello sociale che bisogna modificare per riconquistare il futuro. E’ su questo che operai e studenti si sono incontrati, ed è per questo che le vicende Fiat diventano comprensibili anche a studenti e ricercatori. E, poi,  il modo di mobilitarsi, la capacità di trovare le forme per comunicare meglio i propri contenuti. Per esempio per lo sciopero del 28  gennaio è da loro che abbiamo appreso come sia meglio manifestare nei luoghi più simbolici piuttosto che in tutte le consuete città: andare a Cassino piuttosto che a Roma, a Pomigliano piuttosto che a Napoli, a Massa dove c’è la Eaton che rischia la chiusura piuttosto che a Firenze, e via così. Perché in questa fase importante far corrispondere i luoghi ai valori. Se voglio difendere il lavoro la manifestazione è meglio farla davanti alla fabbrica. Per riparlare delle condizioni di lavoro, quelle oscurate da tempo e radicalmente: a me è capitato di essere fermato su un treno da una signora che mi ha chiesto «ma è vero che esistono ancora le catene di montaggio?». Era passato un altro messaggio, la scomparsa del lavoro concreto. E’ anche su questo che si è riaperto un dialogo tra le generazioni, anche perché questi giovani scendono in piazza con noi non per motivi ideali o ideologici, ma spinti dalla concretezza della loro precarietà, dall’assenza di un futuro. Partono anche loro a una condizione, la stessa cosa che fanno i lavoratori in fabbrica.

Sei contento di fare il segretario generale della Fiom?
Beh sì. Per me che sono cresciuto metalmeccanico è il massimo. Di gratificazione e di responsabilità. Per uno che viene dalla fabbrica e che poi è diventato sindacalista è un impegno grande, pesante, ne sento il peso e spesso mi chiedo come ne verrò fuori. Però è un’esperienza bella e importante che non lascia spazio per nessuna altra cosa, che ti prende totalmente, che diventa una scelta di vita. Fare il sindacalista non può essere considerato un mestiere: stai facendo la cosa in cui credi, se non ci metti tutta la tua passione è meglio non farlo.

*Segretario generale della Fiom dal giugno 2010
Intervista effettuata il 1 febbraio 2011

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