Le rivolte e il Vicino Oriente

16 Marzo 2011

Pierluigi Carta

Mohammed VI -l’attuale agellid alawita del Marocco-ha promesso al popolo marocchino una serie di riforme, ma l’aria che si respira a Casablanca, da tesa si sta facendo elettrica, e il sabato e la domenica scorsa, si son verificati moti di protesta. La riforma annunciata dal re, verrà redatta da un comitato gestito da personalità da lui cooptate e ciò non sembra accattivare i sudditi. Anche il Marocco pare inserirsi nella galoppata alla rivolta del mondo arabo, ma nel frattempo l’Egitto e la Tunisia non sembrano ancora essersi ripresi dalla scossa del recente colpo di stato; entrambi i paesi infatti hanno già cambiato il capo del governo di transizione. Le questioni lasciate in sospeso dai dittatori precedenti e la mancanza di legittimità dei nuovi governi, hanno spinto alle dimissioni il tunisino Mohammed Ghannouchi, seguito dall’egiziano Ahmed Shafiq. I tumulti che stanno scuotendo  buona parte del vicino oriente arabo, sono movimenti di rivolta, e sarebbe azzardato chiamarle “rivoluzioni”. Bisogna però, come primo passo, secondo Nicola Melis, ricercatore di Storia e istituzioni dell’Africa, della facoltà di Scienze politiche di Cagliari «capire come è composta la componente sociale che ha animato la rivolta, e quali siano state le spinte che l’hanno permessa». Paesi come Tunisia, Egitto, Libia e Algeria, sono caratterizzati infatti da una crescita demografica notevole. Sono paesi costituiti da giovani. Stando al tavolino di un café a Tunisi o al Cairo, ci si accorge subito che gli anziani sono una minoranza.  E questi giovani sono in larga parte acculturati, hanno frequentato le scuole primarie, le secondarie, e spesso l’università. L’analfabetismo è un fenomeno fortunatamente in dissoluzione. Ma la faccia negativa della medaglia è rappresentata dagli alti tassi di disoccupazione, con il 31% in Tunisia, il 14% in Algeria e il 17% in Egitto, senza contare che alla maggior parte degli occupati viene corrisposta una paga iniqua. I soggetti attivi nella protesta sono persone acculturate e critiche, che stanno affinando gli strumenti per reagire all’imposizione di condizioni sociali eccessivamente svantaggiose. In questo momento storico, internet, anche se da solo non può costruire un movimento politico organico, è stato indispensabile come fattore di attuazione di un confronto tra le varie situazioni nazionali, mettendo in comunicazione -anche grazie all’universalità della lingua araba- i diversi centri del Maghreb e dell’Europa, lontani anche culturalmente, riuscendo ad instaurare un ponte per lo scambio delle idee tra una riva e l’altra del Mediterraneo. La ricchezza in questi paesi è più che mai mal distribuita, a causa del proverbiale trimurti di malversazione, corruzione e nepotismo. Ma gli espatriati, magari più dei loro connazionali rimasti in patria, conoscono perfettamente i meccanismi distorti e i canali delle corruttele. Lo scambio di conoscenza e di consapevolezza, arroventato alla censura e dalla corruzione, ha scatenato la scintilla. Le richieste dei rivoltosi sono riassumibili nel bisogno di una maggiore giustizia sociale, attraverso l’instaurazione di un nuovo sistema politico-economico, non per forza ricalcato dalla democrazia occidentale. I passanti davanti a “al Barlaman” di Tunisi, ad esempio, erano consci dei meccanismi di cooptazione fondanti del sistema politico precedente. Come accade in maniera non dissimile in Italia. C’è infatti chi parla di una via interna, seguendo le proprie dinamiche, per la nascita di un pluralismo politico moderno, ma comunque sia diverso. Non a caso il sistema di comitati costruitosi spontaneamente a Bengasi, in Libia assomiglia più che altro ad un esperimento anarchico. Le frange in rivolta stanno portando avanti le istanze di un modello di giustizia sociale, all’interno della quale la politica estera è per ora irrilevante. Si tratta quindi di un discorso squisitamente interno. Non ci sono bandiere Usa in fiamme, né stelle di David incenerite, e non è solamente il segnale della cautela politica di Obama. C’è da chiedersi inoltre quali sono i regimi contro i quali si sta combattendo. L’establishment  del Marocco ha tenuto meglio rispetto agli altri paesi, forse in quanto la monarchia si dichiara discendente del clan del profeta e ha una sua legittimazione storica. Quando c’è stata la guerra di indipendenza dalla Francia, il sultano si è schierato come antimperialista e questo gli ha dato un prestigio che nessun altro regnante della regione può vantare. Anche l’Algeria ha avuto la sua legittimazione storica, in quanto il precedente regime ha avuto il merito di liberare la nazione del dominio francese. Un discorso a parte si deve fare per l’Egitto, Mubarak infatti è diventato presidente per caso, occupando il posto vacante lasciato dall’assassinio di Sadat per mano degli estremisti islamici. La Monarchia giordana nasce col peccato originale di essere stata instaurata dagli inglesi. Mentre il caso libanese ha la particolarità di avere un multipartitismo estremo, all’interno del quale si inseriscono tensioni etniche e religiose. La fobia internazionale che paventa una recrudescenza del fondamentalismo musulmano, dovrebbe tenere conto del fatto che i Fratelli musulmani –fondati da al-Hasan al-Bannā in Egitto dopo il crollo dell’Impero ottomano- esistono da 80 anni e non hanno mai avuto un seguito più largo di un sesto della popolazione. Hanno registrato un graduale crollo dopo l’11 settembre, quando al Qaeda è stata sempre più percepita dai musulmani stessi, come la causa del peggioramento delle condizioni di vita dei musulmani fuori dai loro confini nazionali. Le frange dei ribelli hanno tenuto conto del fatto che i Fratelli musulmani si sono accodati tardi alla rivolta, e che all’inizio, le anziane personalità del partito, hanno ricalcato il discorso di Gheddafi, il quale sosteneva di aver a che fare con “giovani scapestrati, probabilmente drogati”. Le avvisaglie di una deriva fondamentalista sembrano non sussistere, in quanto i manifestanti che son scesi in piazza erano e sono i fautori di uno stile di vita più globalizzato, aperto agli influssi della cultura occidentale. Basti pensare agli eroi musicali della rivolta, i quali sia in Tunisia che in Egitto sono dei rapper. Come il rapper di Sfax -la seconda città della Tunisia- che ha cantato al ritmo di hip hop la contestazione al regime e i bagliori della protesta. Gheddafi continua a sbandierare il pericolo di una possibile costituzione di un emirato islamico nelle regioni orientali della Libia -non si sa perché questo dovrebbe intimorire, dato che l’Europa è costellata da “emirati cristiani”. Anche i possibili collegamenti con l’Iran di Ahmadinejad sono velleitari, l’Iran è persiano e col mondo arabo ha poco a cui spartire. In questo momento invece il paese che riscuote più interesse internazionale è la Turchia, soprattutto dopo l’appoggio alla componente palestinese dopo il gennaio 2009 e lo scontro di giugno per la Mavi Marmara. In Turchia oggi hanno un partito islamico, riconducibile ad una nostra “sinistra vagamente democristiana, pragmatica e liberista”, che con tutti i suoi difetti, è riuscito ad ottenere qualche vittoria nei confronti dei militari e qualche apertura verso le minoranze. L’esempio turco ci ricorda che ogni spinta politica che porti all’abbattimento di regimi oppressivi è da appoggiare o quantomeno da soppesare, senza lasciarsi abbagliare dalla targa islamica, perché il mondo arabo forma una realtà complessa, ancora in evoluzione, che difficilmente ricalcherà le orme della sua vicina Europa.

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