La normalità della Saras

16 Aprile 2011

Marco Ligas

La Saras è una fabbrica considerata normale, cioè conforme, come sostiene lo Zingarelli, a una regola o all’andamento consueto di un determinato processo. Opera nel settore della raffinazione del petrolio e nella produzione di energia elettrica. Al suo interno svolgono normali attività produttive diverse aziende appaltatrici le quali, proprio a causa delle loro funzioni, promuovono una normale politica di riduzione dei costi di lavoro.
Tutto conforme dunque ai processi in atto nell’epoca della globalizzazione: meno salari e più profitti. Se non si procedesse così, dicono le regole del mercato, non sarebbe possibile contrastare la concorrenza dei paesi emergenti che vedono il loro Pil crescere del 10% all’anno; peccato che i profitti delle aziende italiane non vengano usati per la ricerca o per migliorare le strutture del sistema produttivo. Intendiamoci, sarebbe già apprezzabile se i nostri manager prestassero maggiori attenzioni alla sicurezza degli impianti. Invece no, distribuiscono subito gli utili, tutt’al più li investono nel sistema finanziario nel tentativo di incrementare le loro entrate.
Siamo lontani dunque dallo spirito calvinista ricordato da Weber: il reinvestimento dei profitti in nuove iniziative economiche non appartiene alla cultura religiosa del nostro capitalismo straccione.
Sta di fatto che alla Saras gli effetti di questa organizzazione del lavoro sono diventati anch’essi normali  e  così  gli incidenti e i morti si susseguono con scadenze sempre più ravvicinate. Magari le morti continuano ad essere definite bianche forse perché le colpe di chi organizza un sistema di produzione capitalistico non possono che essere considerate candide.
In questi giorni, nella raffineria, c’è stato un altro incidente, l’ennesimo; anche stavolta un operaio ha perso la vita e altri due sono rimasti feriti. Le modalità sono sempre le stesse, i tre operai svolgevano lavori di manutenzione in un serbatoio e sono stati colpiti da un getto di idrogeno solforato.
La reazione dei sindacati è stata immediata: otto ore di sciopero e una netta accusa all’azienda per l’inadeguatezza dei sistemi di sicurezza.
Ma la Saras non appare particolarmente preoccupata, non solo non dà segnali convincenti di cambiamento ma dimostra di aver assunto gli stessi comportamenti delle nostre classi dirigenti: subito dopo gli incidenti manifesta qualche imbarazzo, esprime il proprio cordoglio ai familiari delle vittime, offre qualche compenso perché nessuno si costituisca parte civile nei processi che seguiranno ma continua a disinteressarsi della sicurezza degli impianti e non migliora l’organizzazione del lavoro al suo interno. Soprattutto non pone fine alla politica degli appalti che rappresentano uno dei pericoli più gravi della gestione aziendale.
Già altre volte abbiamo sottolineato come l’attenzione che la famiglia Moratti mostra nella direzione della propria azienda non sia uguale alla passione che ha per il calcio e per la quale è disposta ad accogliere anche le richieste più incredibili dei suoi giocatori. Vive la richiesta di un’inversione di attenzione come una provocazione. Rifiuta questa rivendicazione perché è consapevole che attualmente può usare il ricatto del lavoro: o si accettano le condizioni che detta oppure si perde il posto e oggi, con la crisi sempre più grave, non è difficile trovare altri lavoratori disposti ad affrontare i rischi che derivano dall’inadeguatezza dei sistemi di sicurezza.
Impone un prezzo alto da pagare ma riteniamo che sopravaluti la complicità, più o meno diretta, che le offre la classe dirigente che governa il paese. Per quanto arrogante sia diventata questa classe dirigente, disponibile persino a corrompere i rappresentanti del popolo, non potrà garantire l’immunità permanente ai componenti dei suoi clan anche perché già trova qualche difficoltà nel garantirla al suo capo.
I morti sul lavoro impongono cambiamenti radicali all’interno dell’azienda, i lavoratori sanno bene queste cose e si battono perché vengano realizzati; conducono questa battaglia insieme ai sindacati che li rappresentano realmente. Hanno dalla loro parte larghi strati della popolazione, con la lotta possono realmente cambiare le loro condizioni di lavoro.

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