Ad ogni cosa il suo nome

16 Maggio 2011

Roberto Mannai*

Lo scorso aprile l’Alta Commissione elettorale ha dichiarato ineleggibili 12 candidati indipendenti curdi alle elezioni politiche che si terranno il prossimo giugno in Turchia. Fra costoro vi è la donna simbolo della lotta per la democrazia, Leyla Zana.Il Partito per la Democrazia e la Pace (Bdp), filocurdo, ha attaccato il governo guidato da Erdogan, accusandolo di avere attuato una manovra politica per consentire al Partito islamico (Akp) di trionfare nella regione.Tutti i 12 candidati avevano in passato subito delle condanne per terrorismo, etichetta purtroppo spesso utilizzata in Turchia per mettere a tacere coloro che si impegnano civilmente per ottenere un maggior grado di libertà. Tanto più che la recente riforma del Codice penale consente a chi ha scontato tutta la pena di ripresentarsi comunque alle elezioni.A seguito della notizia, migliaia di persone si sono riunite a Istanbul, nel quartiere di Aksaray, per protestare. Si sono registrati scontri con la polizia e molte persone sono rimaste ferite durante gli scontri.Le righe che seguono sono state scritte di getto da un indignato testimone diretto di questi episodi, che attualmente studia in Turchia.

Leyla è una giovane ragazza molto carina e segue con me alcune lezioni. Leyla ha 20 anni e vive nei pressi della mia facoltà, in un quartiere dove molte case non hanno le finestre, ma un telo trasparente e le strade sono piene di vecchie carcasse d’auto. Leyla si mantiene gli studi dando ripetizioni ad anziani semianalfabeti o a bambini che vogliono migliorare il loro inglese. Fin qui sembrerebbe una storia comune a molte altre ragazze, se non fosse che Leyla ha una caratteristica che le altre studentesse non hanno.
Questa sua unicità la fa soffrire molto, si sente esclusa, e pur cercando di nascondere la sua amarezza, il tutto traspare nella sua voce fiera, ma anche tremolante quando a spada tratta difende se stessa e i propri cari con il suo impeto da guerrigliera davanti ad una folla ben poco disposta a capire le sue ragioni. L’unica colpa di Leyla è quella di essere una ragazza curda in un’università di orientamento nazionalista. Ho scoperto che è curda circa un mese fa, quando durante un’accesa discussione in aula tra lei e alcuni nostri compagni riguardo l’identità nazionale, un ragazzo ha paragonato la situazione curda a quella basca.
Io ho solamente fatto notare che le due cose non si possono paragonare, nessuno spagnolo ha mai proibito ad un basco di parlare la sua lingua, di pubblicare un giornale in basco e, tanto meno, lo ha mai apostrofato per aver detto Paesi Baschi invece che Spagna del nord. Il giorno probabilmente mi sono fatto molti nemici, ma da allora ho una persona che nutre per me una profonda stima, e che finalmente ha quel sostegno che in aula le era sempre mancato.Chi non è esperto di Turchia sicuramente non coglierà molte sottili sfumature che si utilizzano quando si parla dei curdi, ma vi assicuro che sono tante, e non sono di poco conto.
Qualche giorno fa parlavo del Kurdistan con una ragazza, e dopo la seconda volta che ho pronunciato la parola Kurdistan, mi ha interrotto dicendomi: “qui preferiamo utilizzare il termine ‘sud-est turco’, perché dire Kurdistan significa dire che il Kurdistan è uno stato”. Cado dalle nuvole, spero di non aver capito bene e mi sento malissimo. Per molti turchi anche il solo dire Kurdistan significa dimostrarne l’esistenza, e questo è sufficiente per giungere alla conclusione che chi utilizza quel termine sia filo-curdo, e quindi leda l’unità nazionale. Provo a spiegare che il suffisso -stan non si riferisce al concetto di “stato”, ma è utilizzato anche per indicare una  regione dal punto di vista meramente geografico, e letteralmente significa “terra di”, tanto che tantissime regioni il cui nome termina con tale suffisso non sono degli stati, come per esempio il Balucistan (regione politicamente suddivisa tra Iran, Afghanistan e Pakistan.), o il Daghestan (Russia). Lei fa cenno di sì con la testa, ma non sembra particolarmente convinta.
Quel giorno sono tornato a casa e mi sono sentito solo e parecchio frustrato: bisogna essere ciechi e sordi per non accorgersi del grido di dolore emesso da questo popolo ogni giorno, e bisogna avere una buona dose di cinismo per non stare nemmeno ad ascoltarlo.Due giorni fa il mio coinquilino mi ha invitato ad un concerto, il morale era basso e per tentare di sollevarlo un po’ mi sono convinto ad andarci.
Il concerto è in una zona periferica di Istanbul denominata Bakırköy, e dopo circa 50 minuti di autobus arriviamo: c’è una folla immensa, tutti ballano in cerchio, i turchi cantano canzoni in curdo e i curdi cantano in turco e possono finalmente gridare “Viva il Kurdistan” senza che nessuno per questo li minacci di morte. Quel giorno sono tornato a casa felice, sapendo di non essere il solo a provare sofferenza per un popolo che per troppo tempo è stato oppresso e che, come dimostra il veto posto alla candidatura di 12 candidati curdi indipendenti, continuerà ad esserlo per molto tempo.Tra i candidati esclusi il nome più eclatante è senz’altro quello di Leyla Zana, la prima donna kurda eletta in parlamento nel 1982, che si presentò al giuramento sfoggiando in quella sede un nastro con i colori nazionali kurdi (rosso, giallo e verde) e che, secondo il verbale del giorno, pronunciò parte del suo discorso in un idioma sconosciuto. Ora tutto mi è chiaro, la mia collega porta lo stesso nome come omaggio all’eroina del suo popolo, e a modo suo, anche la Leyla che segue le lezioni con me è un eroina, perché ogni giorno combatte da sola contro l’ingiustizia anche solo pronunciando il luogo da cui proviene. Kurdistan.

*Roberto Mannai è un laureando di Scienze politiche, attualmente studia a Istanbul con l’Erasmus

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