Teatrocrazia e questioni di numeri

16 Maggio 2011

Pierluigi Carta

L’Italia politica continua a pascere nella sua mediocrità quotidiana, tra promesse, battagliucce istituzionali urlate a mezza voce, rievocazioni di capri espiatori e triti scandali usati da termometro, per misurare il buono stato di salute cattolica che permea il paese. Che l’ultima remota speranza possa sorgere proprio dalla profetica frase “Quando saremo tutti colpevoli, sarà la democrazia”? Un buon politico dovrebbe essere sempre un po’ filosofo; perciò è ancora lecito indignarsi quando Franco Frattini annuncia sommessamente che “l’Italia non lascerà la Libia fino alla caduta di Gheddafi e all’instaurazione di un regime democratico”.
È un rigurgito da sindrome da Fardello dell’uomo bianco o una frase che ha riempito a sproposito un vuoto altrimenti più degno in una conferenza? 
Una frase fuori tempo, ingiustificata, tanto più perché pronunciata da un ministro di una repubblica che non riesce neppure a fare autonomamente i conti con la propria supposta democrazia. Repubblica e democrazia sono parole altisonanti, per le quali si sprecherebbero volentieri delle maiuscole; parole che fioriscono dalle radici di antiche civiltà, ma che portano ancora il baco dell’imperfezione e della corruzione; delle quali però se ne possono evidenziare delle sfaccettature moderne grazie ai lavori di Luciano Canfora sulla Democrazia, Storia di un’ideologia e la Critica della retorica Democratica. Platone, nelle Leggi, parla già di teatrocrazia, per riferirsi alla democrazia ateniese. Con il linguaggio odierno si potrebbe dire che il teatro comico suggestionava fortemente l’opinione pubblica – ad esempio contro Socrate – assolvendo alla funzione degli odierni media. Da qui il forte controllo di Stato sulle rappresentazioni. E la P2, Berlusconi ed il suo regime mediatico non hanno rivelato poi molto più, sull’umana natura, di quanto già la storia ci avesse già illuminato. Il teatro della “scuola dell’Ellade” forgiava le opinioni dei magistrati e dei cittadini anche in quel mondo premoderno, e la democrazia faceva paura ai filosofi e agli oratori prima quanto oggi. Demo-crazia era il termine con cui gli avverssari del governo “popolare” definivano tale potere, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento. Kràtos indica appunto la forza nel suo violento esplicarsi. Così come è violenta la maggioranza quando esprime il suo volere; e Berlusconi deve avere in mente l’Atene antica quando afferma che lui è stato eletto dal popolo per governare e lì deve rimanere, anche contro il volere dei magistrati. Perché già i contemporanei di Pericle erano convinti che il parere del popolo contasse anche più delle leggi scritte.
La prova della violenza recata dalla maggioranza, si può ritrovare nell’imbarazzo dei 220 membri del Consiglio dei 500 che condannarono Socrate. Un ben misero scarto per la morte di un uomo e per la soggiacente censura di un modus pensandi. 220 filosofi, pensava Voltaire, è un grande vanto che può fare l’onore di una polis, cercando consolazione; ma una forte minoranza di capaci raramente soverchia una risicata maggioranza di incapaci. Citando Edoardo Ruffini, amico di Gobetti e uno dei 12 docenti universitari che non prestarono giuramento al regime fascista, il quale fa trapelare l’artificiosità del principio maggioritario, si può evidenziare il fatto che un grande numero (assunto di solito come presupposto dell’intrinseca giustezza di una decisione presa a maggioranza) si può esprimere sia per l’una che per l’altra tesi. Come i 30 voti di scarto per la vita di Socrate o come uno stacco di 9 punti alle elezioni del 2008.
E quindi? E quindi la numerazione dei voti, come scriveva Gramsci nei Quaderni, è la manifestazione terminale di un lungo processo, in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che dedicano allo stato e alla nazione le loro migliori forze – e qui l’espressione è ironica – i quali si adoperano con tutti i mezzi, per far vivere questo regime democratico, che non è nient’altro che la forma politica del capitalismo, con tutte le degenerazioni sociali che esso reca con sé. Se Tucidide andava cercando una risposta sulla bontà del sistema basato sulla maggioranza, Atene non seppe rispondere e pose in compenso il problema della capacità intellettuale della moltitudine.
A riguardo si può oggi constatare che al nobile principio “una testa, un voto”, è andato a sostituirsi il ben più rustico uso “una pancia, un voto”. Se Atene recriminava la corruzione dei suoi regimi, poteva vantare lo spettacolo intellettuale delle orazioni, ai quali potevano essere accostati i dibattiti che un tempo riempivano i silenzi del nostro parlamento. Poca sostanza, forse, ma un’ottima forma. Il tronco marcio della nostra democrazia non da che frutti avariati, e una rinverdimento si può trovare solamente nel sottobosco della società civile. Un Socrate che trangugi volontariamente la cicuta per salvaguardare i principi di un sistema politico in cui realmente crede, non si trova più. Gli accusati invece sbraitano, offendono e scappano;
Socrate direbbe “così infastiditi come chi stia per assopirsi se uno lo sveglia a tirate di colpi”. I quali si appellano al volere della maggioranza, vantando una democrazia illuminata dalle luci della ribalta. Luci che non rischiarano ma che invece accecano; e per chi fosse in attesa dei nuovi lumi, si prega di spegnere la televisione.

1 Commento a “Teatrocrazia e questioni di numeri”

  1. Giulio Angioni scrive:

    Bene, bel pezzo. Ci manca solo l’opinione di Pascal sulla democrazia, che per lui è far in modo che nell’impossibilità di fare forte ciò ch’è giusto, si fa in modo che sia giusto ciò che è forte,.O quell’altra, che però è adombrata anche qui, che si attribuisce ad Al Capone o a Totò Rijna, che la democrazia è la legittimazione del racket che è il capitalismo. Io però mi sorprendo sempre, specie rispetto al fallimento del più grande tentativo umano di realizzare un progetto politico che è stata l’Unione Sovietica, a pensare al parere di Churchill, che la democrazia è la peggior forma di governo, meno tutte le altre. Ma quello di Ales-Ghilarza, è più vicino a Socrate o a noi, quando rinchiuso a tacere si è messo a pensare fuer ewig?

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