Connessioni

16 Maggio 2011


Marcello Madau

E’ possibile, osservando il rapporto tra programmi politici e beni culturali e paesaggistici, cogliere indicazioni interessanti su un problema assai delicato e importante, come quello del rapporto fra politica e intellettualità, natura e profilo delle stesse. Non è che in queste elezioni amministrative si sia parlato molto di beni culturali e paesaggio. Se non altro rispetto all’affermazione quasi rituale che si debba puntare su un modello di sviluppo basato su tali risorse (cosa molto importante, ma niente affatto sufficiente a risolvere la crisi di questa società). Però i temi hanno sicuramente avuto evidenza maggiore di altre volte.
Nelle elezioni dei piccoli centri l’accenno al patrimonio culturale, sovente quello archeologico, è superiore al passato. Più selettivo l’approccio nei grossi centri urbani: a Cagliari riferimenti singoli a Tuvixeddu e all’Anfiteatro romano, con qualche cenno sulla valorizzazione del nucleo medievale. Ad Olbia un solo intervento in chiave di paesaggio e verde urbano, quello convincente di Cristina Dessole (complimenti per sostanza e forma: nel capoluogo gallurese dire di non riempire i vuoti con il cemento ma con verde e parchi, è un gesto di vero coraggio).

Questo lieve miglioramento, almeno in termini di attenzione e scontando le ‘mode’ dell’industria culturale, è dovuto principalmente al continuo lavoro e impegno sui saperi diffusi nel territorio, delle associazioni e degli operatori culturali, di tutti i cosiddetti ‘lavoratori della conoscenza’, un impegno che crea e associa relazioni, scambia esperienze, produce interventi sui beni pubblici e comuni e materiali d’inchiesta.
E’ una tendenza forte in Sardegna, addirittura vivace in centri come Alghero, con segni incoraggianti a Sassari e Cagliari. E’ crescente in tutta Italia. Non ci fosse stata non avremmo avuto manifestazioni come ‘Abbracciamo la cultura’, ‘Il nostro tempo è adesso’ e la partecipazione al recente sciopero generale della CGIL. Questa realtà si associa ad una forte sensibilizzazione alla difesa del paesaggio attraverso i temi del nucleare, dell’acqua bene comune, le recentissime opposizioni ai radar militari a Fluminimaggiore, Tresnuraghes, S. Antioco ed Argentiera.
Si tratta di una rete che sta costruendo nuove forme di intellettualità e intelligenza collettiva.
Non si può dire che le rappresentanze politiche raccolgano a sufficienza i temi e le iniziative di questo ampio e articolato movimento: al di là di qualche adesione ai temi suscitati, manca l’elaborazione di programmi politici reali generati da riflessioni strutturate, e quindi queste ultime. Ecco perché lo spettro degli interventi va da mantra abbastanza generici come “vogliamo operare per la valorizzazione del nostro grande patrimonio culturale e ambientale etc. etc” ad attenzioni specifiche come per la necropoli di Tuvixeddu e l’Anfiteatro romano (con l’impressione – anche se non c’è più nessuno che difenda l’attuale sistemazione, esclusione fatta per qualche integralista – che sia Fantola che Zedda siano più preoccupati a salvare la stagione dei concerti che il monumento).
Una scarsa relazione fra esperti/intellettuali e politica? Uno schema che non funziona, intanto perché la dinamica delle produzioni intellettuali è profondamente cambiata, e naturalmente la figura – le sue diverse forme – dello stesso intellettuale.
Dall’ultimo ventennio del secolo precedente, al capitalismo cognitivo ed alle nuove forme di accumulazione flessibile che esso produce, si rapportano e si oppongono, con ruolo crescente, i lavoratori cognitivi, brainworkers tendenzialmente spinti da tale forma capitalistica al precariato, con tendenza marcata alla personalizzazione individuale delle forme contrattuali ed alla liquidazione di quelle collettive. Perciò sono assai interessanti le forme di autocoscienza e organizzazione del precariato, l’aggregazione fra precariato e lavoratori organizzati, la creazione di reti globali.

In questo numero Alfonso Stiglitz commenta criticamente il manifesto che un gruppo di intellettuali sardi ha elaborato a Seneghe. Ne discutiamo volentieri nel ‘manifestosardo’: molti aspetti di questa operazione, oltreché la sua sostanza, ci trovano lontani e fortemente critici. Ma il problema principale, al di là dell’interesse dei temi trattati (la crisi sociale, il federalismo, i modelli di sviluppo, la cultura, il senso della rappresentanza), ci sembra l’inadeguatezza di un tale ‘raduno’ e della sua natura complessiva di intellettualità (ben oltre le pur ottime persone singole).
A parte l’autorappresentazione di gruppo, la definizione degli intellettuali e delle produzioni culturali ci appare davvero debole, tautologica, e soprattutto vecchia: non vi è traccia delle nuove morfologie produttive, della speciale commistione fra natura materiale e immateriale delle ‘produzioni’ (prima ancora della loro fuoriuscita segnica), delle forze reali connesse, dei processi reticolari in atto e dei movimenti prima accennati.
Ci si rifugia in modo taumaturgico, di nuovo, nella Limba Sarda Comuna.
Vi è una grande distanza dalle attuali problematiche: il precariato, i licenziamenti, la disoccupazione, i transiti marini di migliaia di disperati; l’attacco globale all’ambiente, la necessità di battaglie ampie sui beni comuni e sui beni culturali. Battaglie possibili solo costruendo saperi e ’massa critica’ con classi e ceti subalterni al di fuori dell’isola. Di fronte al peso di queste vicende, è francamente inadeguata, al di là della sua credibilità storica, la debole retorica di Sa Die de Sa Sardigna (rimando al nostro Cavece ‘nculo alla libbertà). E’ probabile che la distanza espressa rispetto alle esigenze delle popolazioni sarde mostrata dallo stesso dibattito regionale (vedi qualche mese fa su questo sito ‘Separatezza’ ) necessitasse di un tentativo di rianimazione artificiale, magari in attesa di un eventuale cambiamento politico.

Ha ragione Stiglitz nell’indicare la vetustà dello schema città-campagna e lo scarso radicamento culturale nel territorio, ma forse siamo in presenza di una cesura più profonda.
“Emerge la figura di intellettuale, itinerante, staccato dal territorio di origine o di scelta, tendenzialmente cosmopolita, sebbene, non sembri paradossale, strettamente legato all’isola; ovviamente non vuole essere una critica ai presenti nel documento, semmai agli assenti.” scrive nel suo sofferto contributo.
Ma gli assenti sono presenti, non visti, nei processi reali, lontani da questi esercizi autoreferenziali.

A volte l’osservazione di un problema ‘particolare’ può liberare informazioni più ampie e scenari complessi.
Ti rendi conto che la sua natura partecipa ad un flusso più generale. Perciò la debolezza di una relazione innanzitutto cognitiva fra rappresentanze politiche e la rete collettiva sui temi della cultura e dell’ambiente, è spia della crisi sia della politica sia della figura classica dell’intellettuale. Di due mondi che dialogano male fra di loro e assieme sono lontani dal mondo reale (naturalmente, per usare un riferimento gramsciano, un vero partito come intellettuale collettivo del ‘popolo-nazione’ è forma tutta da riscrivere, in modo davvero radicale. Ma la sua importanza per la costruzione della polis non è a mio parere diminuita).
Questo debolezza relazionale si manifesta perciò anche per tutti gli altri grandi temi come il lavoro, la guerra, la salute, i diritti civili, etc.: i movimenti indicano, nella loro pratica, azioni orizzontali che formano modalità relazionali oltre i confini; i vecchi intellettuali e la politica restano chiusi nei loro mondi.
L’assenza di prospettiva e l’indebolimento della democrazia partecipativa che ne conseguono sono lacune pesantissime sulle quali la sinistra dovrebbe lavorare con maggior impegno.

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