Sa Grascia

1 Giugno 2011

Francesco Bellu

La Sardegna di Bonifacio Angius è una terra sospesa, bruciata dal sole dell’estate, colorata e a tinte forti. Difficile sondare i limiti tra ciò che è reale e ciò che non lo è: tutto si mescola nella storia di Antoneddu, caduto dalle scale ma salvo per miracolo. La nonna ora gli ha messo addosso un abito da fraticello, perché deve andare sino alla chiesa di Sant’Antonio e ringraziarlo. Ha ricevuto “sa grascia”, la grazia. Lungo il cammino incontrerà personaggi buffi, malinconici, strambi, mentre la chiesa che sembrava dietro l’angolo è ancora lontana, tanto lontana.   Al suo primo film, Bonifacio Angius, tenta l’azzardo (riuscito) del realismo magico e si allontana dai canoni con cui è sempre stata raccontata la Sardegna sul grande schermo. Ha alle spalle una serie di cortometraggi premiati ovunque, da “Ultimo giorno d’estate” a “In sa ìa”, caratterizzati da una forte cifra personale riconoscibile sin dalle prime immagini, con questi colori netti e caldissimi, che disegnano una terra senza tempo, sospesa e in attesa di un evento improvviso.
In “Sa Grascia”, questo il titolo del film che è stato proiettato in anteprima nazionale martedì scorso a Sassari, l’arrivo alla chiesa viene allungato con una serie di peripezie, tanto da trasformare un religioso pellegrinaggio cattolico, in una sorta di viaggio pagano, dove la “magia” e il disincanto malinconico la fanno da padroni.
Il piacere del racconto prende il sopravvento su tutto, obbligando lo spettatore ad abbandonarsi a quanto viene narrato, perché alla fine la pazienza verrà premiata. Un po’ come succede al piccolo Antoneddu.   I vecchi racconti orali de “sos contos de foghile” sembrano essere, in parte, la materia prima da cui il regista ha attinto per la sua storia, che è andata crescendo di giorno in giorno, senza uno schema fisso, quasi come se la sceneggiatura fosse una sorta di canovaccio su cui mano a mano si è imbastita la storia.
È il destino di molti giovani registi sardi, costretti a dilazionare le riprese, mettere mano costantemente allo script, per sopperire alla mancanza di fondi o enti che agevolino il loro lavoro.   La tanto strombazzata film commission esiste solo a parole, ognuno si arrangia come può: crea società senza fini di lucro per trovare i soldi necessari, allunga i tempi di produzione e post produzione, e alla fine si batte per poter far vedere il suo film in sala. “Sa Grascia” di Bonifacio Angius ha seguito questo destino, e malgrado sia stato messo in concorso, unico film italiano, al Festival di San Paolo in Brasile, uno dei più importanti dell’America Latina, sino a ora non ha trovato una casa di distribuzione che lo proietti in maniera regolare.   Per il pubblico anche non sardo, sarebbe l’occasione di poter vedere un film fuori dalle visioni tradizionali con cui è sempre stata vista la nostra Isola sul grande schermo, riassumibili in due filoni: “film cittadini” e “Barbagia movies”. Una divisione, indubbiamente schematica, che ha anche prodotto al suo interno film importanti e altri più stereotipati, ma dalla quale volente o nolente la Sardegna non riesce quasi a liberarsi. Forse perché è così che siamo percepiti anche dall’esterno, con una dualità marcata (e manichea) tra mondo urbano e rurale o peggio (soprattutto all’estero) come una terra esotica, un po’ come gli scrittori dell’Ottocento, con la puzza sotto il naso, dipingevano l’impero Ottomano e le terre ad Oriente in senso lato.
“Sa Grascia” segue invece una via tutta sua e si allontana da queste etichette, tanto da risultare un film difficilmente inquadrabile: ha un realismo che trascolora nel magico, in cui la Sardegna non è una entità geografica, ma quasi un luogo dell’anima.   L’uso della lingua sarda, diversamente dalla scelta antropologica di Salvatore Mereu per il suo “Sonetaula” (altro film che rifugge dalle facili classificazioni, tanto è orgogliosamente attaccato a una sua idea di cinema molto personale), diventa quasi un sottofondo musicale arcaico di un mondo che non si vorrebbe lasciare mai più.

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