Diario da Rafah

16 Giugno 2011

Laura Tocco

Diario da Rafah, al confine con la striscia di Gaza, Palestina. Un intinerario che parte dalla Sardegna per arrivare a Rafah passando dal Cairo. Nell’ambito del mio dottorato di ricerca presso l’Università di Cagliari mi occupo dello studio della società civile palestinese e delle attività di cooperazione con la società civile turca, un esempio di cooperazione decentrata, sempre più significativo alla luce delle pesanti condizioni di embargo a cui, da anni, è sottoposto il territorio di Gaza. Approfitto, dunque, della missione per la Striscia di Gaza organizzata dall’Associazione Amicizia Sardegna Palestina per condurre le mie ricerche in loco. La stessa associazione, infatti, gestisce un progetto di cooperazione con Gaza finalizzato al sostegno psicologico dei bambini vittime degli attacchi israeliani. Tra le altre, una delle attività del progetto è quella di fornire supporto ai bambini nell’attività scolastica.
Quaranta chilometri per quindici chilometri di terra: è la Striscia di Gaza, un’area che ospita un milione e mezzo di abitanti. L’assedio imposto da Israele a partire dalla vittoria elettorale di Hamas soffoca la popolazione impedendo l’ingresso di beni primari e la libera circolazione delle persone. Il mio viaggio per la Striscia ha inizio a Rafah, unica porta di accesso all’Egitto per la popolazione palestinese. Il 28 maggio avrebbe dovuto rappresentare una svolta significativa della diplomazia egiziana, il governo post-Mubarak, infatti, ne aveva annunciato l’apertura, segnando una discontinuità con il governo precedente. Tuttavia, l’apertura di Rafah è sembrata più un caso costruito dai media e dalle maggiori testate internazionali piuttosto che un fatto reale. All’evento, infatti, il numero dei giornalisti superava di gran lunga quello dei palestinesi in uscita. Sebbene l’apertura del valico sia rivolta a tutte le donne e i bambini, escludendo gli uomini dai 18 ai 40 anni, la misura rappresenta ancora un forte limite alla circolazione del popolo palestinese. La manovra, infatti, è soggetta a continue modifiche, tanto è che, a pochi giorni dalla sua apertura, il valico è stato chiuso più volte secondo la discrezionalità delle autorità egiziane. Tuttavia, come fanno notare molte fonti locali, l’apertura di Rafah non modificherebbe la condizione della Striscia.
Per ragioni strutturali, geografiche, politiche e storiche, il Sud della Striscia, da solo, non riuscirebbe a fronteggiare l’emergenza umanitaria di Gaza. Questa manovra, dunque, non deve condurci a sottovalutare la perenne situazione di embargo della Striscia da parte di Israele. I valichi merci rimangono sotto la giurisdizione israeliana e il blocco aereo, marittimo e terrestre è una condizione che persiste nella stesse modalità di prima. Circa il 66% dei gazawi vive al di sotto della soglia di povertà e la disoccupazione raggiunge il 40%. A ciò si aggiunge la mancanza di beni primari quali l’acqua potabile e l’elettricità, mentre, gli attacchi dell’esercito israeliano amplificano lo stato di allarme umanitario. La Palestina è una terra logorata, frammentata in ghetti, priva della continuità territoriale da un bantustan all’altro, attraversata da controlli israeliani, installazioni militari, autostrade riservate ai soli coloni.
Questa condizione limita la libertà di movimento, aumenta le distanze e impedisce di soccorrere le emergenze. Le forti restrizioni alla libertà di movimento influiscono fortemente sull’esercizio dei diritti fondamentali, quali quello al lavoro, all’istruzione e alla salute. Tutto ciò si svolge nel pieno rispetto della “legalità” israeliana e con la complicità degli organismi internazionali che, non solo stanno a guardare ma finanziano anche l’industria di armi israeliana. Ossia, non solo non si condanna la politica che Israele sta perpetrando sui Territori Occupati, ma le si offrono anche gli strumenti per realizzarla.
La società civile palestinese è organizzata in un cosmo infinito di organizzazioni e movimenti che cercano di resistere all’occupazione progettando il proprio futuro. La speranza di poterlo fare trova nell’istruzione una delle strade di soluzione dello stato di occupazione. Studiare rappresenta per il popolo palestinese uno strumento per riuscire ad essere più resistente, più forte, più robusto davanti a tutto ciò che l’occupazione comporta. A tal proposito, l’accademia italiana, attraverso una rete di studiosi, cerca di giocare un ruolo significativo nell’ambito del diritto allo studio del popolo palestinese. La stessa Università di Cagliari ne è coinvolta grazie ad un accordo di cooperazione con l’Ateneo di Gerusalemme (Università di al-Quds). Il sostegno accademico costituisce uno strumento prezioso per superare, per vie pacifiche, una situazione di barbarie senza precedenti.

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