Altri Mondi – Perú: Il lavoro dei bambini

16 Dicembre 2013

chiara amodio  foto

Emilia Giorgetti

Sono 9 milioni i bambini e adolescenti lavoratori dell’America Latina. Dietro al Brasile, che detiene il triste primato, si piazza il Perú, con i suoi 1.6 milioni, secondo le stime ufficiali: uno su 4, nella fascia di età tra i 6 e i 17 anni, la metà dei quali ha meno di 13 anni. Fanno di tutto: lucidano le scarpe dei signori nelle strade polverose della capitale, vendono gadgets e schede telefoniche ai semafori, fabbricano mattoni, spaccano pietre, custodiscono il bestiame, scendono nelle viscere della terra in cerca di metalli preziosi, aspettano agli incroci maleodoranti l’occasione di pulire un parabrezza, in cambio di pochi spiccioli. Le bambine, soprattutto, lasciano molto presto i villaggi rurali per un impiego da ”sirvientas” presso le famiglie benestanti delle città. Qui, al riparo delle mura domestiche, impiegate in un non-lavoro senza regole e senza orari, vengono sfruttate e subiscono ogni tipo di violenza, anche sessuale. Cominciano anche a 3 anni; spesso vengono ribattezzate e, nel momento in cui la “padrona” assume il ruolo di madrina, si trasformano in “criadas” (”criar”, in spagnolo, significa “allevare”), in un processo illegale di affiliazione, in conseguenza del quale perdono ogni diritto, compreso quello al salario. Ogni membro della famiglia, anche i più piccoli, è un padrone, ai cui ordini e alle cui pretese non possono sottrarsi.
Dietro l’immagine abituale dei minori indaffarati nei mercati e lungo le strade, l’esercito degli invisibili e degli illegali, che potrebbe raggiungere i 4 milioni, sfugge alle statistiche del governo: i primi, impiegati all’interno delle proprie case, impegnati nella cura dei fratelli più piccoli; i secondi, risucchiati, spesso in condizioni di autentica schiavitù, dal mercato parallelo della criminalità organizzata nella coltivazione o raffinazione della droga, o vittime di tratta.
Questa normalità è difficile da sradicare, in una società in cui il lavoro dei bambini, soprattutto nelle zone rurali, è considerato formativo e in cui la povertà e i salari da fame, costringono tutti i membri della famiglia, anche i più piccoli, ad impegnarsi per garantirne la sopravvivenza. Si calcola che il 18% dei redditi familiari peruviani sia prodotto dal lavoro dei bambini, in un circolo vizioso, in cui la miseria è causa ed effetto e genera nuova miseria ed assenza di futuro, attraverso l’abbandono scolastico. Per la scuola manca non solo il tempo ma, soprattutto, il denaro per l’iscrizione e per l’acquisto del materiale necessario.
La crescita economica e una nuova sensibilità sociale stanno, se pur molto lentamente, riducendo il fenomeno e, per la prima volta, il Perú ha formulato una strategia nazionale mirata alla prevenzione e alla totale eliminazione del lavoro minorile entro il 2021. Ma i divieti non risolvono il problema; nemmeno la disperata rincorsa della crescita attraverso la concessione delle zone rurali per lo sfruttamento intensivo delle risorse. E’ di questi giorni la resistenza disperata delle 1100 famiglie indigene di Morocha, una comunità andina a 4500 m slm, seduta su un immenso giacimento di rame, ferro, alluminio, piombo, uranio, oro e zinco, che il governo ha dato in concessione all’impresa cinese CHINALCO. Le iniziali promesse di infrastrutture e sviluppo si sono risolte in uno sgombero forzato e violento verso “Nueva Morocha”, un’anonima distesa di baracche di proprietà dell’impresa, issate in una zona umida, inquinata dagli scarti tossici dell’attività mineraria e ad elevato rischio di inondazioni. Qual è il futuro dei bambini di Morocha? La miniera? La morte precoce per avvelenamento? Il trasferimento in una favela della capitale?
Nell’attesa che le briciole di questo modello di sviluppo e i tardivi proclami del governo sortiscano i loro effetti sulla piaga del lavoro minorile, i ragazzi peruviani hanno cominciato ad organizzarsi. Nel Movimento Manthoc, per esempio, nato perché ai lavoratori bambini siano riconosciuti dignità, diritti, sicurezza, un salario equo e, soprattutto, la possibilità di conciliare quel lavoro di cui le loro famiglie non possono fare a meno, ma di cui anch’essi vanno fieri, con la frequenza scolastica. Nato nel 1976 da volontari della GIOC (Gioventù Operaia Cristiana), essi stessi ex bambini lavoratori, il “Movimiento Adolescentes Niños Trabajadores Hijos de Obreros Cristianos” è il primo al mondo diretto dagli stessi bambini che ne fanno parte ed è servito da esempio per molti altri, sia in America che in altri continenti. Il Manthoc propone la “valorizzazione critica del lavoro infantile” e promuove il protagonismo dei bambini lavoratori, volto al miglioramento della qualità della vita e alla creazione di una società più giusta e inclusiva. In ogni centro in cui il Manthoc è presente, i bambini si organizzano secondo uno schema fortemente gerarchico: si riuniscono in gruppi, ciascuno dei quali esprime due rappresentanti delegati al confronto con le autorità locali. Appoggiandosi ad associazioni e a gruppi di volontariato, gestiscono 27 strutture dove i bambini lavoratori si riuniscono per fare i compiti, socializzare e imparare un mestiere vero.
Una piccola rappresentanza del Manthoc ha visitato Firenze dove, fino al prossimo 7 gennaio, all’interno del Museo di Storia Naturale, saranno esposte le splendide foto di Silvia Amodio ad essi dedicate (Saluti dal Perù – I ragazzi del Manthoc, ritratti e immagini di Silvia Amodio). Hanno dagli 11 ai 17 anni e vengono da ogni angolo del paese. Mauricio (i nomi sono di fantasia) è impiegato in una piccola trattoria, alla periferia della capitale. E’ serio come un adulto ed è orgoglioso di riuscire a strappare alle lunghe ore dedicate alla cura della famiglia e al lavoro il tempo necessario per studiare e costruirsi un futuro diverso. Beatriz ride con gli occhi. Aiuta la madre al mercato di Iquitos, nella regione amazzonica. Grazie al Manthoc ha scoperto la sua vocazione: vorrà lavorare per la radio. Per ora si accontenta di mettere la sua voce argentina al servizio del movimento. Diana viene da Jaén, nel nord del paese: anni di esperienza nel Manthoc ne hanno fatto un’oratrice disinvolta e consumata. Anche lei aiuta nella piccola attività commerciale della famiglia. Nel centro del Manthoc che frequenta si occupano di tratta, un termine che risuona, sinistro, in tutti i racconti che ascoltiamo durante l’incontro.
Alejandro Cussianovich è un sacerdote e riconosciuto pedagogo che, dal 1964, si occupa dei bambini lavoratori e che, con entusiasmo, ha aderito al Manthoc mettendo, da subito, la sua “pedagogia della tenerezza” al servizio del movimento. “L’organizzazione dei bambini lavoratori” dice ”è stata creata per combattere lo sfruttamento. Però, allo stesso tempo, anche per riconoscere in una maniera critica l’importanza del lavoro nella vita delle famiglie povere o impoverite dalla società e dallo stato. La pedagogia della tenerezza è politica: la soggettività non è una dimensione personale o privata ma, al contrario, è una possibilità formidabile per trasformare questa terra nostra in uno spazio e in un tempo dove sia possibile guardarsi l’un l’altro senza aver paura di niente”.
Per una società come la nostra, in cui il lavoro minorile è considerato un tabù – salvo dimenticarsi che molti dei privilegi e delle comodità di cui godiamo scaturiscono dalla fatica di milioni di bambini invisibili – movimenti come il Manthoc possono apparire come una resa di fronte alla realtà, se non, ancora peggio, un espediente per la promozione del lavoro infantile. Ed è difficile accettare che siano forse la sola forma di riscatto possibile per chi, schiacciato da un modello di sviluppo fondato sulla disuguaglianza, non avrebbe altrimenti voce.

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