Anni 70, fotografia e vita quotidiana

16 Novembre 2009

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Antonio Mannu

Anni 70, fotografia e vita quotidiana”,  una coproduzione della Fundacion Banco Santander,  del Centro Andaluz de Arte Contemporáneo, del MAN di Nuoro, di La Fabrica e PHotoEspaña, è in mostra a Sassari  fino al 17 di gennaio, presso  il Museo dell’Arte del Novecento e del Contemporaneo (ex Convento del Carmelo). Un’ampia esposizione, composta dai lavori di ventidue artisti, che hanno operato nel campo della fotografia durante gli  anni 70, periodo cruciale, di mutazioni culturali e sociali, che hanno influenzato in maniera profonda anche la fotografia. Scrive sul catalogo che illustra la mostra Sergio Mah,  curatore dell’esposizione insieme a Paul Wombell: “E’ importante evidenziare che questa mostra non mira a tracciare una panoramica generale dell’attività fotografica nel decennio degli anni 70. (…) Ma, più concretamente,  ciò che abbiamo cercato di fare è stato soprattutto mettere in evidenza un complesso di trasformazioni e circostanze sociali e artistiche, assieme ad altre più specificatamente fotografiche, che diedero luogo a una marcata e innovativa tendenza verso il quotidiano (….) le opere e gli autori presenti in questa mostra cercano di mettere in evidenza un momento storico in cui la fotografia divenne il modello di un’arte “rivolta al mondo”.” I lavori in mostra danno conto di questo attraverso una variegata gamma di  immagini esemplari, di forme artistiche e tendenze, di modi diversi di fare e  pensare la fotografia.  I lavori esposti si possono, un po’ sommariamente, suddividere in due filoni, anche se con numerose sfumature e differenze. Alcuni sono molto attenti all’aspetto formale ed estetico delle immagini, e si inseriscono in modo chiaro in una prospettiva classica della fotografia di documentazione. Altri sono meno rigorosi nella forma, quantomeno sotto il profilo fotografico, più concettuali e mediati. Tra i primi si annovera senza dubbio il doppio contributo del sudafricano David Goldblatt, di taglio fotogiornalistico di alta scuola. Il suo è un approfondito lavoro di esplorazione della realtà sudafricana di quegli anni, una sorta di ricerca visuale sulla psicologia dell’ apartheid. Anche le immagini realizzate dallo statunitense Eugene Richards a Dorchester, un sobborgo di Boston dove il fotografo è nato e in cui ritorna per esplorarlo con la fotocamera, appartengono a questo universo. Così come Café Lehmitz, l’intenso e poetico ritratto dello svedese Anders Peters, dedicato ad un caffè di Amburgo frequentato da portuali, alcolisti, prostitute; e le immagini a colori dell’olandese Ed van der Elsken, tratte dal libro Eye Love You. Ma anche il lavoro a quattro mani di Gabriele e Helmut Nothhelfer, o il  rigoroso reportage di gusto teatrale di Viktor Kolar sulla sua città natale, Ostrava, un lavoro che si è sviluppato nell’arco di quasi mezzo secolo; anche Karen Knorr nel suo racconto di parole e immagini su Belgravia, quartiere alto residenziale londinese, fotografie ambientate ma realizzate come in uno studio, immagini in cui l’autrice ha inserito delle didascalie impietose: “non c’è nulla di male nel privilegio, sino quando sei pronto a pagare per averlo” dichiara un damerino in giacca bianca e cravatta a farfalla, ritratto all’interno di un lussuoso appartamento. Anche il lavoro di J.D. Okhai Ojeikere sulle acconciature delle donne nigeriane rientra nel novero  della fotografia classica.  E appartengono a questo filone, anche se in modo più libero in un caso, più naif e fresco nell’altro, i contributi in mostra della svizzera Claudia Andujar e quello dello spagnolo Alberto Garcia-Alix.  Victor Burgin utilizza senza dubbio i canoni della fotografia documentaria ma, inserendo dei brevi  testi dentro le fotografie, induce a  uno spostamento di senso, che sembra porre una precisa domanda: può la sola fotografia spiegare i rapporti sociali? Le fotografie di William Eggleston, che definiva la sua una “fotografia democratica” non si rifanno direttamente al reportage classico, ma sono attentamente costruite e formalmente rigorose. Alla seconda tipologia appartiene invece il contributo della spagnola Fina Mirales. Nel suo “Relazioni del corpo umano con elementi naturali”, attraverso una serie di scatti che la ritraggono, indaga il rapporto dell’uomo con il proprio ambiente e con se stesso.  Nelle fotografie del giapponese   Kohei Yoshiyuki non c’è  nessuna concessione all’estetica, anzi una probabile consapevole ricerca di impure e “brutte” fotografie, realizzate a Tokyo, di notte, nei parchi pubblici. Laurie Anderson nel suo “Oggetto/Obiezione/Oggettività-Nikon Completamente Automatica”, interpreta  la fotocamera come arma, e la cubana Ana Mendieta realizza la messa in scena di un supposto evento inquietante  per il suo  “Persone che guardano il sangue”. Christian Boltanski, nella sua installazione del 1971 “L’ Album della famiglia D”, utilizza 150 immagini tratte dall’album di famiglia di un amico, fotografie nate per restare private, in apparenza di nessun interesse pubblico. Cyndi Sherman invece, in una serie di autoritratti in  cui si traveste in molteplici figure, si interroga sui modelli identitari del mondo femminile. Hans-Peter Feldmann, considerato uno dei più importanti artisti concettuali tedeschi, concentra il suo sguardo sul banale, costruendo sequenze di 36 immagini focalizzate sui momenti intermedi tra gli eventi, sequenze che danno il senso dello scorrere continuo del tempo. Lo spagnolo Carlos Pazos usa la propria immagine, rivolgendo lo sguardo su se stesso, per interpretare, nel suo progetto En la intimidad, uno dei protagonisti de Il Grande Gatsby di Fitzegerald. Il maliano Malik Sidibé colleziona piccole stampe fotografiche, in formato 7×10, con la costanza  di un entomologo devoto alla sistematica; immagini che ritraggono i protagonisti di molteplici situazioni festive della capitale Bamako. Alan Sekula infine appartiene  una categoria che non rientra con facilità in nessuno dei due filoni illustrati. Il suo è un lavoro quasi cinematografico, che infatti si rifà al primo film della storia del cinema, “L’ Uscita dalle Fabbriche Lumiere”.  Si tratta di una sequenza incentrata sull’uscita degli operai di una fabbrica che vuole generare, piuttosto che una visione soggettiva, una sorta di obiettività, necessaria nel lavoro di documentazione. Un’obiettività problematica, che si colloca in realtà sul terreno del coinvolgimento personale, pur operando formalmente in maniera neutrale.    La mostra “Anni 70”, allestita in collaborazione con la Provincia di Sassari, è  aperta al pubblico tutti i giorni, tranne il lunedì (10 – 13 / 16 ,30 – 20 ,30). Ingresso gratuito.

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