Antifascismo, Resistenza, Costituzione

2 Dicembre 2014
Manifestazione_antifascista
Claudio Natoli

Pubblichiamo l’intervento di Claudio Natoli e vi invitiamo a partecipare all’incontro “La Costituzione tra passato e presente”, con la partecipazione di Luigi Ferrajoli, che si svolgerà a Cagliari Lunedì 15 dicembre nell’aula Magna B.R. Motzo alle ore 16.30. (Redazione)

Cercherò di riflettere sul ruolo che spetta all’antifascismo e alla Resistenza nella storia d’Italia e sul legame inscindibile che li unisce alla Costituzione repubblicana. Questa riflessione appare oggi tanto più importante, perché, dopo il referendum del 2006, di cui si è smesso di parlare il giorno dopo che si era svolto, è tornata di attualità la questione di una revisione della nostra Costituzione. Dirò subito che si tratta di un tema particolarmente delicato: e non è inutile qui ricordare che da molti anni in Italia, l’asserita inderogabilità di radicali riforme costituzionali si è intrecciata, in sede politica e mediatica, con una martellante campagna volta a delegittimare l’intera Carta costituzionale e a costruire un nuovo “senso comune” fondato sulla cancellazione della memoria critica del passato fascista e sull’azzeramento nella coscienza collettiva dell’eredità dell’antifascismo e della Resistenza. In altre parole è difficile sottrarsi all’impressione che l’antifascismo e la Resistenza siano oggi una memoria scomoda non solo per quello che hanno rappresentato nella storia passata del nostro paese, ma anche e soprattutto per quello che possono rappresentare oggi in termini di valori, di memoria e di quella consapevolezza storica collettiva che spetta alla scuola e all’università conservare e trasmettere alle nuove generazioni. Riscrivere la storia attraverso un corredo di manipolazioni e di luoghi comuni fidando sull’uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa, in assenza di una seria battaglia delle idee ed anzi nel quadro di un sostanziale azzeramento del passato, dimenticare “per essere moderni e per andare più spediti verso il nuovo”: tutto questo sottrae alla società civile la consapevolezza critica, la costringe in “eterno presente” privo di memoria e di storia.

Non è inutile allora cercare di inquadrare storicamente la nascita della nostra Costituzione e richiamarne i principi fondamentali in rapporto all’eredità lasciata non solo dal crollo del fascismo e dalla catastrofe della seconda guerra mondiale, ma anche ai problemi e ai nodi lasciati irrisolti dall’Italia liberale. E’ bene precisare che la Costituzione italiana non nacque da un deteriore compromesso tra ristretti gruppi di potere partitici, come si è sentito affermare da troppi anni, bensì nacque dall’iniziativa dei partiti di massa e dai gruppi più rappresentativi delle principali correnti politiche, sociali e culturali del paese in un contesto di crisi, ma anche di grandi speranze e di rinascita democratica, quale era quello che emergeva in Europa dopo il 1945 e dopo la disfatta del nazi-fascismo. La Costituzione repubblicana nasceva in un paese che prima dell’avvento del fascismo aveva appena cominciato a sperimentare il passaggio da un parlamentarismo oligarchico di matrice ottocentesca, fortemente segnato dal notabilato e da rapporti clientelari, a una democrazia fondata sui partiti di massa. Per gran parte della storia dell’Italia liberale, le classi lavoratrici e le masse rurali più povere del Meridione e delle isole erano state, infatti, considerate come “classi pericolose” se non “nemiche” dello Stato e per larga parte escluse dall’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza. Ha scritto Stefano Rodotà che l’analisi dell’area dei diritti nell’Italia liberale fa emergere una condizione generale di disuguaglianza che restringe la nozione piena di titolarità di quei diritti a una figura ben determinata: “il borghese maschio, maggiorenne, alfabetizzato, proprietario”. Il codice civile e penale erano informati a questo principio (con la sanzione tra l’altro di un ruolo subordinato per l’intero genere femminile), mentre sul piano istituzionale vigeva un suffragio elettorale estremamente ristretto. A ciò corrispondeva uno Stato centralistico fondato sui prefetti, il primato del potere esecutivo sul Parlamento, la limitata o inesistente indipendenza della magistratura, la precarietà del diritto di associazione e di sciopero (con il corredo di ricorrenti “eccidi proletari” in occasione delle proteste popolari), le normative molto arretrate in tema di diritti sociali e del lavoro. Certo, la politica giolittiana all’inizio del ‘900 e soprattutto la nascita di un moderno movimento operaio e socialista, e successivamente l’allargamento del suffragio elettorale maschile, la conquista di numerose amministrazioni comunali socialiste nel centro-nord, lo sviluppo dei partiti di massa e il grande ciclo di lotte sociali del “biennio rosso” avevano aperto spazi non trascurabili all’interno di questo sistema. Ma è significativo che proprio la fase di passaggio a una democrazia di massa avesse segnato nel 1919-22 la crisi e la dissoluzione dello Stato liberale: e questo prima ancora che la dittatura e il regime fascista si incaricassero di cancellare l’intero complesso dei diritti civili e politici e di distruggere con la violenza il movimento di emancipazione delle classi lavoratrici, con la restaurazione delle tradizionali gerarchie sociali e l’inquadramento forzato delle masse nell’ambito dello Stato totalitario.
La nuova classe dirigente che guidò l’Italia dopo la Liberazione era articolata in gruppi, organizzazioni e ideologie molto diverse tra loro. Ciascuno di questi gruppi, aveva una propria identità e una propria storia, e tuttavia ciò che almeno nella fase costituente univa queste forze era quello che Francesco Traniello ha definito una “comune sentire antifascista” maturato in tempi e in esperienze anche molto diverse.
Un posto centrale assumono in questo contesto l’esperienza storica dell’antifascismo e della Resistenza e il rinnovamento politico e culturale che queste esperienze comportarono. La storia dell’antifascismo tra le due guerre non è riducibile a una contrapposizione meramente negativa alla dittatura fascista, ma è anche e soprattutto la storia della formazione di gruppi dirigenti con un’esperienza e uno spessore politico-culturale quali il movimento operaio e democratico italiano non aveva in precedenza conosciuto, ed insieme è quella dell’enuclearsi di culture politiche profondamente nuove, quali poi si manifesteranno all’indomani della Liberazione. L’elemento fondante di questo processo sarà l’incontro tra movimento operaio e democrazia e l’elaborazione, nella seconda metà degli anni ’30, di una programma positivo per la rinascita del paese dopo la caduta del fascismo: questo programma era incentrato sulla costruzione di una democrazia nuova, e cioè, per usare le parole di Vittorio Foa, “una democrazia rinnovata, socialmente avanzata e fondata su una genuina partecipazione delle masse popolari”, un democrazia capace di superare i limiti oligarchici e l’estraneità delle classi popolari al vecchio Stato liberale e di recidere le radici economiche e sociali del fascismo. Questa acquisizione fu di inestimabile importanza, se solo si considera la sostanziale indifferenza con cui le forze del movimento operaio italiano, ma anche intellettuali di provata fede democratica come Gobetti e Salvemini, avevano accolto nel 1922 il crollo dello Stato liberale e l’avvento al potere del fascismo. D’altra parte, sino all’avvento al potere di Hitler, l’antifascismo italiano era stato attraversato da insanabili divisioni tra le forze democratiche e socialiste e i comunisti proprio sui metodi e le finalità della lotta antifascista. Un ruolo insostituibile per la formazione di una nuova cultura politica nell’antifascismo italiano fu svolto tra gli anni ’20 e ’30 dapprima dall’emergere, di una nuova generazione, impersonata da Piero Godetti, Carlo Rosselli e Antonio Gramsci, il cui tratto comune fu l’impegno per una rivoluzione antifascista che gettasse le basi per la formazione di una nuova classe dirigente, per un approfondimento del rapporto tra fascismo e storia d’Italia e per una profonda ridefinizione dei soggetti e del concetto stesso di democrazia, e poi dall’apertura all’Europa, attraverso il confronto ravvicinato con le Internazionali operaie, con il comunismo sovietico e con la realtà dell’URSS, pur con tutti gli aspetti mitici tipici di quegli anni, e ancora con le correnti più vive del socialismo internazionale, da Weimar alla Vienna rossa, al laburismo inglese e al planismo belga, ma anche e soprattutto attraverso la partecipazione degli antifascisti italiani alla mobilitazione internazionale contro il fascismo e la guerra, ai grandi movimenti antifascisti nella Francia del fronte popolare e poi all’azione di solidarietà con la Repubblica spagnola negli anni della guerra civile. Il complesso di queste esperienze costituirà un laboratorio politico ed ideale per una piattaforma largamente condivisa che avrebbe portato al superamento di ogni ipotesi di restaurazione in Italia del vecchio Stato monarchico-costituzionale, e che avrebbe conferito un contenuto nuovo e più avanzato alla lotta per la conquista della democrazia, ma anche, ed è questo un altro fatto di decisiva importanza, un’ispirazione unitaria alle principali forze dell’antifascismo italiano, e cioè ai comunisti, ai socialisti e a Giustizia e Libertà. Infine,deve essere sottolineato il valore dell’azione illegale svolta direttamente in Italia, soprattutto dai comunisti e da GL, al fine di mantenere in vita un’opposizione attiva nel paese. Sebbene divenisse sempre più debole nel corso degli anni, questa azione, che costò il carcere o il confino a migliaia e migliaia di oppositori politici, costituì uno stimolo per l’opposizione politica e sociale e per la creazione di nuovi gruppi antifascisti nel paese e portò alla formazione di decine di migliaia di dirigenti e di quadri che sarebbero stati in seguito tra i principali organizzatori della Resistenza.
Emerge a questo punto un altro tema storico di centrale rilevanza: e cioè quello dell’incontro tra i dirigenti e i quadri delle carceri e del confino, dell’illegalità e dell’emigrazione, e la nuova generazione antifascista che si era andata formando nel corso degli anni ‘30 direttamente nel paese. Questa generazione avrebbe seguito un percorso che fino al 1942 in gran parte si sarebbe svolto non già nell’ambito un legame organizzato con le forze dell’antifascismo storico, bensì a contatto diretto con la disgregazione delle basi di massa del regime già al tramonto degli anni ’30, o ancor più con la disastrosa conduzione della guerra e sotto l’impatto della catastrofe nazionale dell’8 settembre 1943. L’antifascismo tra i giovani nella seconda metà degli anni ’30, costituì un fenomeno estremamente complesso, in cui confluì una molteplicità di esperienze e di percorsi individuali: la partecipazione critica ai Littoriali, il distacco dalla cultura ufficiale attraverso la scoperta delle avanguardie artistiche europee e della letteratura americana, il rifiuto esistenziale prima ancora che politico del fascismo (la rivolta contro l’irregimentazione dei giovani), il riemergere di forme di alterità o di antifascismo apolitico di estrazione operaia e popolare, l’incontro con il comunismo sotto l’impatto della guerra di Spagna, il diffondersi di nuove correnti politico-culturali, come il liberalsocialismo. E tuttavia ciò che più colpisce in questi anni è la sorprendente convergenza nelle problematiche e nelle progettazioni per il futuro tra le forze più vive dell’antifascismo all’estero impegnate nella guerra di Spagna (ricordiamo il celebre incitamento di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna domani in Italia”) e il nuovo antifascismo che, sia pure in forme molecolari e senza un legame diretto con i partiti all’estero, stava crescendo nel paese: anche nei giovani la scelta antifascista avvenne all’insegna della costruzione di un fronte unitario e della prospettiva di una società profondamente rinnovata, capace di coniugare libertà politiche ed emancipazione sociale delle classi lavoratrici, sia che le fonti ispiratrici fossero la Spagna del Fronte popolare e il mito dell’URSS, sia che si proponesse una originale sintesi tra liberalismo e socialismo. Come ebbe a scrivere Aldo Capitini, le idee nuove che formarono l’antifascismo dei giovani furono l’”unità dei popoli contro la guerra minacciata dal fascismo”, l’ “unità antifascista come unità popolare”, l’“abbattimento del fascismo come rivoluzione di popolo non solo restauratrice delle libertà soppresse ma instauratrice di una democrazia nuova, basata sulla liquidazione dei gruppi monopolistici (spina dorsale delle tirannide e dell’imperialismo fascista) e sulla partecipazione al potere delle classi che ne erano state sempre escluse”. Senza l’incontro tra queste due diverse generazioni la Resistenza italiana non avrebbe potuto sviluppare i suoi tratti più originali, e cioè il suo carattere di movimento di massa, i suoi contenuti di partecipazione dal basso e di profondo rinnovamento politico e sociale che ne fecero uno dei fattori determinanti della rinascita democratica e civile del paese.
Il fattore determinante di questo incontro fu tuttavia costituito dalla seconda guerra mondiale. Le modalità dello scatenamento del conflitto e la conduzione bellica da parte della Germania nazista, dell’Italia fascista e dei loro alleati e satelliti, la sconvolgente realtà del “nuovo ordine” imposto al continente europeo, l’annientamento dei diritti e l’onnipotenza dello Stato discrezionale, la gerarchizzazione sociale e razziale, l’oppressione delle popolazioni invase giunta nell’Europa orientale sino alla pianificazione di politiche di schiavizzazione e di sterminio di milioni di persone, la deportazione e il genocidio degli ebrei non potevano non conferire alla seconda guerra mondiale il carattere inedito di uno “scontro di civiltà”. La “grande alleanza antifascista”, anche al di là delle stesse intenzioni e dei progetti geopolitici dei “tre grandi”, avrebbe assunto così, nella mobilitazione degli eserciti e nelle molteplici forme di resistenza dei popoli, un contenuto politico e ideale al cui interno la disfatta delle forze dell’Asse veniva percepita come la premessa per l’avvento di un mondo totalmente rinnovato. Ciò prefigurava un modello di rapporti tra le diverse nazioni fondato su principi di cooperazione e di solidarietà che assumeva gli accenti di un nuovo umanesimo. E’ questo forse il messaggio più alto delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, dalle quali traspare, al di là delle motivazioni politiche, delle fedi religiose e delle appartenenze nazionali, la ferma convinzione di contribuire alla nascita di un mondo nuovo, più libero e più giusto.
E’ a questo clima che bisogna riferirsi se si vuole comprendere il processo di rinnovamento delle culture politiche che investì in quegli stessi anni le forze della sinistra (comuniste e socialiste), non meno che quelle liberali e cattoliche. Questo rinnovamento affondava, come ho già detto, le proprie radici nell’elaborazione più avanzata dell’antifascismo europeo degli anni ’30, ma comportava anche un profondo ripensamento sulla catastrofe del ’29, sulla crisi della politica e dell’economia liberale e, non ultimo, sulle corresponsabilità delle élites dirigenti liberal-conservatrici e delle Chiese nel dilagare dei movimenti e dei regimi fascisti. Ma esso trovava uno stimolo e una sponda determinante anche oltre Atlantico nella figura del presidente Roosevelt, nell’esperienza del New Deal e negli intellettuali a lui più vicini. Ed è di qui che si andrà affermando una nuova cultura dei diritti che tenderà a ridefinire e a riqualificare il concetto di libertà e di dignità della persona, le forme e la sostanza della democrazia e il futuro sistema delle relazioni internazionali. Siamo qui alle origini del costituzionalismo democratico, che si affermerà in Europa dopo la liberazione e che troverà un importante riscontro nella nascita del Welfare State. Le sue chiavi di volta saranno da una parte, l’integrazione della democrazia formale con la democrazia sostanziale, l’allargamento della sfera pubblica dei diritti attraverso la ridefinizione del concetto di uguaglianza e la costituzionalizzazione del lavoro come elemento fondativo dei nuovi patti costituzionali; dall’altra, l’affermazione sul piano universalistico del trinomio democrazia sostanziale-pace-diritti umani come punto di non ritorno della nuova comunità internazionale da costruire dopo la disfatta del nazi-fascismo, di cui l’espressione più alta sarà la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
Ma torniamo alla Resistenza italiana. Fu merito dei gruppi antifascisti, e in particolare dei dirigenti e dei quadri più sperimentati del Pci e del Partito d’azione, avere assunto subito dopo l’8 settembre 1943, l’iniziativa dell’organizzazione e della direzione politico-militare della lotta contro l’occupazione tedesca e contro il fascismo di Salò, di aver fatto dei Cln nell’Italia occupata il centro di formazione di una nuova classe dirigente profondamente diversa da quella prefascista e di avere costruito nel vivo della lotta una rete sempre più articolata di associazioni e di organismi di partecipazione dal basso che costituivano il primo nucleo di una nuova democrazia. La Resistenza italiana fu parte di un fenomeno internazionale diffuso in tutta l’Europa occupata, ma la sua caratteristica più originale fu “l’intreccio di lotta sociale e di lotta armata, di forme vecchie e nuove di direzione politica, di lotte per l’indipendenza nazionale e per il rinnovamento politico del paese”: in altre parole, la lotta armata fu solo un elemento di una attività che vide l’intreccio della lotta di classe nelle città e nelle campagne”, la compresenza “di scioperi e guerriglia, di azione militare e rivendicazioni sociali”. Su di un altro versante, il “microcosmo” della banda partigiana, come in precedenza il carcere e il confino fascista, costituiva una scuola di solidarietà e di moralità collettiva, un momento di rottura delle tradizionali barriere sociali, in particolare tra ceti intellettuali, operai e contadini, e una forma “alta” di educazione alla politica. Contemporaneamente, accanto alla Resistenza politica e alla lotta armata, nel vivo della società, si sviluppava la “resistenza civile” come forma di “legittimità ribelle” all’ordine dell’occupante e dei suoi collaboratori. La resistenza civile investì una gamma amplissima di azioni: dalla protesta sociale al rifiuto della coscrizione e del lavoro coatto, alle manifestazioni individuali e collettive di insubordinazione verso gli occupanti, alle molteplici forme di solidarietà nei confronti dei combattenti della Resistenza, dei prigionieri alleati, degli ebrei e degli altri perseguitati, che videro impegnate in prima fila le donne. Vi è infine il capitolo, a lungo trascurato, dei militari italiani che decisero di non deporre le armi e di battersi (come a Cefalonia e a porta San Paolo), e di quelli catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, che nella stragrande maggioranza si rifiutarono di combattere nella fila della Repubblica di Salò e che affrontarono la durissima realtà dei campi di concentramento nazisti. Ma nel frattempo il fronte resistenziale si era allargato ad altre forze di orientamento più moderato (i diversi gruppi liberali e il nuovo partito cattolico) rimasti sino al 1942-43 estranei all’antifascismo storico ma destinati ad esercitare un condizionamento determinante sugli esiti della Resistenza e sul nuovo assetto del paese nel dopoliberazione. La resistenza italiana si configurò pertanto come la convergenza tra forze politiche e sociali diverse, unite nell’obiettivo immediato della lotta contro il nazifascismo, ma all’’inizio divise riguardo ai caratteri che avrebbe dovuto assumere il nuovo Stato dopo la Liberazione. Nel confronto che allora si aprì e che attraversò anche i singoli raggruppamenti politici l’antifascismo avrebbe costituito un terreno di confronto obbligato e di rinnovamento politico-culturale non solo per i partiti della sinistra, ma anche per quelle correnti liberali e cattoliche che nel vivo della Resistenza sarebbero tornate a confrontarsi con i temi della libertà e della democrazia, superando le precedenti compromissioni con il fascismo.
Altra cosa è riflettere sull’intreccio estremamente complesso tra continuità e rottura che caratterizzò la nascita e il primo quindicennio dell’Italia repubblicana. L’avvento della Repubblica segnò il definitivo tramonto degli anacronistici progetti di restaurazione monarchico-conservatrice e l’avvento di un ordinamento democratico parlamentare fondato sui partiti di massa e su una partecipazione politica diffusa che non avevano avuto riscontro nello Stato liberale postunitario e che anzi ne avevano accelerato la crisi e la dissoluzione nel periodo del primo dopoguerra. Un fatto di inestimabile valore anche simbolico fu costituito dall’estensione del diritto di voto e dal riconoscimento della parità giuridica alle donne, da cui erano rimaste private non solo durante il regime fascista, ma anche nell’Italia liberale. Una particolare attenzione fu inoltre dedicata dai costituenti al principio del bilanciamento e della separazione dei poteri nell’ambito del nuovo Stato. L’autonomia della magistratura dal potere politico trovava qui per la prima volta nella storia d’Italia una sanzione costituzionale. Inoltre il potere esecutivo veniva subordinato al Parlamento e comunque distribuito con lungimiranza ed equilibrio tra governo e presidente della Repubblica. Nello stesso tempo il carattere centralistico dello Stato, che era stato esasperato dal regime fascista ma che aveva radici profonde nella stessa Italia liberale, veniva intaccato con l’istituzione dell’ordinamento regionale e delle regioni a statuto speciale, nonché con l’allargamento delle autonomie comunali e provinciali. A vigilare sulla conformità delle leggi alla Costituzione veniva per la prima volta creato un organo anch’esso indipendente dagli altri poteri, la Corte costituzionale.
Il secondo aspetto determinante fu non solo l’allargamento, ma la nuova concezione dei diritti della persona sancita dalla Costituzione. Anzitutto, la Costituzione riconosceva che tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Ma la novità forse più grande fu costituita dal fatto che mentre le Costituzioni liberali e gli ordinamenti giuridico-istituzionali ottocenteschi avevano garantito i diritti civili e politici dell’individuo e soprattutto avevano collocato la proprietà al centro del diritto di cittadinanza, la Costituzione, oltre ad allargare in modo determinante la sfera dei diritti civili (da quello di associazione a quello di sciopero) riconosceva come proprio fondamento il lavoro e stabiliva come compito della Repubblica quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, politica e sociale del paese” (art.3). In questa luce la Costituzione ha riconosciuto i diritti sociali come parte integrante dei diritti di libertà, in quanto presupposto indispensabile per il “libero sviluppo della personalità” dei cittadini e per l’esercizio effettivo delle libertà politiche. Gli articoli 32, 33,34, 35,36,40 sanciscono il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, alla previdenza, come anche un trattamento economico tale da garantire una “esistenza libera e dignitosa”, riconoscendoli come interesse generale della società e obbligano lo Stato a intervenire per realizzarli e quindi ad agire per correggere le disuguaglianze. La Costituzione tutela inoltre la libertà di informazione, promuove la ricerca scientifica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Per converso, la Costituzione dichiara che “l’iniziativa economica privata è libera”, ma non può esercitarsi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41-42). In particolare prevede la possibilità del trasferimento allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti, di imprese o categorie di imprese afferenti a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopoli che abbiano preminente interesse generale, dispone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. Infine la Costituzione pone al centro della nuova identità democratica dell’Italia repubblicana il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, con un implicito riferimento alla Carta delle Nazioni Unite: un principio che stava a significare una rottura con i regimi fascista e nazista che avevano fatto della guerra e dell’oppressione imperialista parte integrante del proprio codice genetico, ma anche con una tradizione colonialista profondamente radicata nell’Italia liberale. Siamo qui nel cuore di quel costituzionalismo democratico affermatosi in Europa dopo il 1945 e di quella “nuova democrazia” che costituisce il patrimonio più vitale dall’antifascismo e della Resistenza.
Certo l’attuazione di questi principi, come del resto anche l’intera transizione dal fascismo alla democrazia repubblicana, ha costituito un capitolo lungo e travagliato della storia d’Italia. C’è sempre stata una parte della società italiana che, in particolare negli anni del centrismo, ma a ben vedere anche in anni più recenti, si è rifiutata di fare i conti con il fascismo, ci sono state forti resistenze conservatrici nello Stato e nella società, che si sono intrecciate con i pesanti condizionamenti della “guerra fredda” e con i limiti della cultura di tutte le forze politiche. La Costituzione è rimasta congelata per almeno un decennio e la sua attuazione è approdata a risultati tutt’altro che compiuti, cosicché alcuni diritti devono oggi non solo essere difesi ma persino riconquistati: e tuttavia si può affermare con sicurezza che il progresso democratico e civile che il nostro paese ha conosciuto soprattutto negli anni ’60 e ‘70 ha trovato nella Costituzione repubblicana il suo più solido fondamento.
Non vorrei dare l’impressione che di fronte alle radicali trasformazioni del mondo contemporaneo non ci sia nella Costituzione nulla da modificare ed anche da arricchire sulla base delle esigenze e dei nuovi diritti fondamentali del tempo presente. Tuttavia non è questa oggi la posta in gioco. Negli ultimi anni abbiamo assistito in Italia e in Europa alla pretesa di stravolgere il “modello sociale europeo” e di rimodellare la nostra società all’insegna della teologia di un libero mercato del tutto svincolato dalla regole della democrazia: ed in particolare, con progetti di revisione costituzionale e ancor più con indirizzi di governo volti a sostituire i principi della partecipazione, della rappresentanza democratica e della solidarietà sociale codificati nella Costituzione con un inedito connubio tra sfera pubblica e sfera privata, tra vertici politici, oligarchie economiche e finanziarie e concentrazioni mediatiche, con un accentramento di poteri e forme di rappresentanza di tipo plebiscitario, in una società sempre più depoliticizzata ed atomizzata; a ricondurre la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo; a deregolamentare e demolire il diritto del lavoro (con tutte le devastanti conseguenze sul precariato e sull’impossibilità per i giovani di costruire il proprio futuro); a degradare e a privatizzare la sfera pubblica, la gestione dei “beni comuni” e l’accesso alla sfera dei diritti sostanziali dell’istruzione, della sanità, della previdenza e dell’assistenza sociale. Da tutti questi punti di vista a me pare che la nostra Costituzione, lungi dal costituire un residuo di un passato definitivamente tramontato, rappresenti oggi una sfida contro ogni regressione politica, sociale e culturale e una garanzia che parla al nostro presente e soprattutto al nostro futuro.

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