Bianca la rossa

1 Agosto 2009

Loris Campetti

Per un Avvocato (con la maiuscola) che ha regnato per quasi metà del Novecento sulla città di Torino, ce n’è un altro, anzi un’altra di avvocato, che ha rappresentato l’altra faccia della città, quella senza potere che però il potere è riuscita più e più volte a conquistarselo, dentro un limpido conflitto che – siamo nel Novecento, appunto – ha rappresentato il motore della capitale mondiale dell’auto. E a lungo della cultura, dell’innovazione, della democrazia. L’altra avvocato si chiama Bianca Guidetti Serra, “Bianca la rossa” per i compagni e le compagne torinesi e che oggi è il titolo della sua biografia, scritta per Einaudi con la collaborazione di Santina Mobilia. I suoi novant’anni di storia sono una delle ultime, limpide testimonianze di un mondo le cui tracce e eredità non andrebbero disperse. Radicale nei contenuti, schierata sempre con i più deboli sia sul piano professionale che su quello politico – una distinzione inesistente per l’autrice – Bianca la rossa è stata ed è una donna mite quanto risoluta.
Dominano queste memorie i luoghi che Guidetti Serra attraversa: dalle montagne della Resistenza alle strade in cui si costruiva l’insurrezione della città, dalla fabbrica di automobili alle fabbriche della morte che hanno nomi tremendi come Ipca o Eternit, dalla difesa di chi sentì traditi gli ideali della lotta partigiana (la banda Cavallero), cercando nelle armi un’uscita da un pantano che si trasformò in inferno. E poi le Brigate rosse, il primo processo a Curcio e compagni che non si riuscì a tenere in città e quelli successivi. Bianca si interroga ancora su quella deriva armata, sul perché lo straordinario secondo biennio rosso torinese – il ’68 e l’autunno caldo – produsse anche quel processo. E si chiede se non ci siano responsabilità della sua generazione che forse raccontò la partigianeria facendo centro più sui mezzi che sulla sua finalità.
Dominano queste memorie anche i nomi, i compagni di un viaggio periglioso e fantastico. La famiglia Gobetti e l’amicizia con Ada, il Primo Levi di “Se questo è un uomo” e della “Chiave a stella”, Alessandro Galante Garrone – il “mite giacobino” – e Norberto Bobbio. E ancora, Emilio Pugno e l’intero gruppo dirigente della Camera del lavoro torinese. I comunisti, quelli in tuta blu da difendere dall’arroganza di una Fiat vallettiana e atlantica, quando a dettare gli ordini a Mirafiori era l’ambasciatrice americana Luce. Comunisti come Palmiro Togliatti a cui esprimere dubbi e dissensi in una stagione segnata dall’obbedienza, in fabbrica come in sezione. Cresciuta in un mondo più segnato dall’azionismo che dal comunismo, con un compagno di Gl, Bianca scelse il Pci e la Cgil per condurre le sue battaglie, meglio per mettersi al servizio di una battaglia collettiva. Dal Pci uscì nel ’56 dopo i fatti d’Ungheria con dolore, senza rimpianti o, tanto meno, abbandoni di campo. I più deboli li ha difesi, in consiglio comunale, in Parlamento e in primis nelle aule giudiziarie dagli anni Cinquanta – tra le prime donne avvocato – fino all’inizio di questo secolo. E’ lei che scoperchiò il mondo fetido dello spionaggio alla Fiat, segnato dalla subalternità degli apparati dello stato al capitale privato. E quando raccontò quella storia la sua casa editrice, naturalmente la torinese Einaudi che di Bianca aveva già pubblicato “Il paese dei celestini” e “Compagne”, si rifiutò di mandarla in libreria perché “la città non doveva sapere”. Fu dunque Rosemberg & Sellier a dare alle stampe, nel 1984, “Le schedature Fiat”.
L’avvocato degli operai, delle donne che ha difeso e organizzato. Quando Bianca si scagliava contro qualcuno era solo per difendere i diritti degli indifesi. Nella sua biografia Guidetti Serra si volta indietro solo per capire il presente, per guardare al futuro: “Vedo i mali del presente senza nostalgie per il passato”. Dietro di sé vede una lezione di storia torinese, “la capacità di conciliare la forza politica e morale della classe operaia con il rigore dei gruppi intellettuali, da cui sono venuti contributi importanti nel filone liberal-socialista e nel cattolicesimo sociale. Solidarietà e rispetto per gli altri hanno qui profonde radici, che hanno favorito i processi di integrazione”. Alla fine, anche Torino affittò ai meridionali. Il sogno di Bianca è che oggi l’integrazione possa riguardare i nuovi migranti.
Nel bilancio della sua vita che conclude il libro, Bianca la rossa ricorda una frase trovata “in un mio vecchio diario, che avevo trascritto da una guida dell’Olanda, perciò in francese, durante un viaggio. E’ un motto di Guglielmo il Taciturno che avevo fatto, e continuo a fare, mio: “Point n’est besoin d’espérer pour entreprendre, ni de réussir pour persévérer”. Bianca vive a Torino nella casa di sempre.

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