La sventura del signor Bonaventura

16 Maggio 2010

cubeddu

Mario Cubeddu

Da noi, ma non solo da noi, c’è il brutto vizio che nessuno legge quello che scrivono gli altri. A meno che non si sia obbligati dal fatto che della cosa parlano tutti, in primo luogo “il giornale”. Anche in questo caso c’è chi stronca senza aver letto né visto, ma si ha una maggiore possibilità di ascolto.
Questa premessa per inquadrare la vicenda delle maschere carnevalesche tornate di attualità per la giusta e opportuna decisione di Mamoiada di proteggere la sua tradizione. Ma forse si poteva fare di più. Affermare, ad esempio, che il proliferare delle maschere in paesi del centro Sardegna negli ultimi anni è frutto di una evidente falsificazione. Ben dimostrata da ricerche serie pubblicate su pagine autorevoli, che nessuno però sembra aver letto.
Le maschere di cui si parla, sino a quella più assurda e fantasiosa dei “cozzulados” di Cuglieri, troverebbero la loro fonte in testi poetici, che noi riteniamo falsi o falsificati, attribuiti a Bonaventura Licheri. Chi era costui? Gli “scopritori” di quelle poesie e di quelle maschere affermano che si tratta di un padre gesuita contemporaneo, amico e compagno di missione, del padre gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo. Il Licheri lo avrebbe accompagnato in missioni nel centro Sardegna nel corso delle quali avrebbe visto e cantato le maschere carnevalesche di cui sopra. In un saggio pubblicato nel luglio 2006 da “La Grotta della vipera” dal titolo “Poeti ritrovati, poeti inventati”, credo di aver dimostrato che non è mai esistito un Bonaventura Licheri compagno del padre Vassallo nelle sue missioni. Bonaventura Licheri visse tra il 1668 e il 1733, mentre il Vassallo operò soprattutto negli anni successivi alla sua morte. Il Licheri studiò per alcuni anni dai gesuiti e abbandonò l’Ordine per vicende familiari. Sposò una signora che si chiamava Cipriana Polla, lo stesso nome che una falsa tradizione attribuisce all’amante del padre gesuita della leggenda. Di conseguenza le poesie a lui attribuite e pubblicate a cura di Eliano Cau nel volume “Deus ti salvet Maria” non gli appartengono, ma sono testi scritti da altri in tempi recenti. Potrebbero essere state scritte nell’Ottocento, in seguito all’affermarsi di una leggenda che utilizzava e travisava dati reali di cui non si aveva notizia certa.
Io sono convinto che la composizione di questi testi risale agli ultimi decenni del secolo scorso, che gli autori sono ancora vivi e che la loro composizione risponde ad esigenze assolutamente attuali. Quelle di avvalorare tradizioni popolari di canto e maschere non documentate, “inventate” all’inizio per amore ed entusiasmo e poi sostenute per difendere posizioni diventate forti e remunerative. Il carattere recente dei testi poetici sulle maschere, attribuiti a Bonaventura Licheri, è dimostrato da un’analisi anche superficiale del linguaggio e dello stile delle poesie a lui falsamente attribuite. La tesi da me sostenuta in quell’articolo non è stata contestata.
Ci si è limitati a prenderne atto affermando: si, c’è un vero Bonaventura Licheri vissuto tra il 1688 e il 1733, ma esiste anche il nostro, vissuto tra il 1734 e i primi dell’Ottocento, compagno del Vassallo e autore dei testi poetici che parlano delle maschere. Non viene portato nessun argomento serio a conferma dell’esistenza di quest’ultimo personaggio. Il più forte sarebbero in realtà le poesie stesse.
Si dice che il manoscritto che le conteneva è stato divorato dai topi, ma fortunatamente ne esiste una copia dattiloscritta. Peccato che la macchina da scrivere nel Settecento non esistesse. Su questo personaggio leggendario e sulle poesie a lui falsamente attribuite si è fondata un’operazione di “riscoperta” di maschere carnevalesche finanziata dagli enti pubblici e che va consolidandosi con formazione di gruppi stabili e loro esibizione in Sardegna e in varie parti dell’isola. Fortunatamente c’è ancora spazio per la seria ricerca storica e per la verità. La questione di Bonaventura Licheri e delle maschere inventate viene chiusa definitivamente, per fortuna, dalla fonte più autorevole, un libro uscito da poche settimane.
Si tratta di “I Gesuiti in Sardegna. 450 anni di storia”, edito dalla CUEC e scritto dal padre gesuita Raimondo Turtas, sino a pochi anni fa professore all’Università di Sassari. Si tratta del maggior esperto di storia della Chiesa che la Sardegna abbia avuto dopo Damiano Filia. E’ il caso di citare interamente quello che scrive: (I “gosos”) “Attestati fin dai primi anni del Seicento ebbero, fra gli autori più conosciuti soprattutto per la scorrevolezza dei versi e per il loro forte impatto emotivo, Bonaventura Licheri di Neoneli (1688-1733), che per qualche tempo fece parte della Compagnia (1685-1693) – fino a compiervi il triennio filosofico- e con la quale dovette continuare a mantenere un forte legame; non merita quindi alcuna credibilità la recente diceria di farne un coetaneo del celebre padre Vassallo, del quale si parlerà a suo tempo. Per ciò che concerne, invece, il testo del canto sardo più famoso, il “Deus ti salvet maria”, esso deriva quasi alla lettera da una laude, pubblicata con altre a Macerata nel 1681 dal Gesuita di Todi Innocenzo Innocenti (1624-1697); si ignora però quando e da chi essa- che è ben nota anche in Corsica- sia stata tradotta in sardo logudorese e introdotta nell’isola.”
Non si potrebbe essere più chiari: nessun Bonaventura Licheri compagno del Vassallo; di conseguenza le maschere che i due avrebbero visto sono il frutto della fantasia di un “poeta” contemporaneo, per giunta piuttosto scadente. Fanno bene quindi gli abitanti e l’amministrazione di Mamoiada a tutelare da indebite imitazioni “mamuthones” e “issohadores”. Le tradizioni popolari autentiche vanno difese, poiché rischiano di essere distrutte da una invasione di cloni inventati per fini che niente hanno a che fare con la storia e la cultura. La moneta cattiva scaccia quella buona e tradizioni false rischiano di compromettere la credibilità di tutto ciò che di autentico ancora rimane nel campo delle tradizioni popolari sarde. Quando la stampa non fa il suo dovere di vaglio critico delle informazioni, quando gli organismi culturali pagati per la tutela e lo studio delle tradizioni popolari si occupano d’altro, quando gli enti pubblici prestano ascolto alle suggestioni fantastiche più che alla modestia della verità, succede che si mettano in piedi iniziative tanto costose quanto inverosimili che ancora una volta, come nel caso delle “Carte di Arborea”, danneggiano gravemente la credibilità di tutte le attività culturali della Sardegna.

14 Commenti a “La sventura del signor Bonaventura”

  1. Giovanna Porcu scrive:

    Gent.mo Sig. Cubeddu
    non è sempre vero l’assunto di base del suo articolo che nessuno legge ciò che scrivono gli altri se non si è obbligati a farlo per una questione di “moda” o “tendenza”.
    Avevo letto il suo articolo precedente e ho letto pure questo e solo per questo le scrivo, per dirle che anche i suoi articoli, vengono letti.
    E visto che ci sono esprimo il mio pensiero in materia di maschere, già espresso peraltro nella pagina delle opinioni de l’unione sarda.
    Concordo con il marchio in oggetto ma non concordo con l’uso dei termini usati, ritengo infatti che spesso ciò che ci viene dal passato, maschera compresa, sia una riedizione e non un’edizione … una rappresentazione di un rito e non un rito … tuttavia ritengo dense di significato tutte le rappresentazioni che evocano un non so che dentro di noi.
    Detto ciò dico però che poco sacro evoca un mamuthone alla prova del cuoco e in quella veste il sacro si veste di banale e di commerciale che sicuramente avrà l’effetto desiderato di far conoscere questo o quel prodotto ma è marketing e non “cerimonia religiosa”.
    Dico anche che il sacro non si banalizza in alcun modo e a mio avviso talvolta anche con l’uso delle parole gli stessi autori credendo di dar valore alle cose, spoetizzano e banalizzano il sacro insito nelle cose. Talvolta anche parlarne troppo di una cosa toglie quella patina di mistero e di fascino che induce l’uomo alla ricerca del significato e del significante che quel sacro contiene come simbolo di un arcaico. Il sacro delle cose non è un’astrazione ma è quel sentimento oscuro e misterioso che nasce di noi dentro di noi legato a noi stessi che questa o quella maschera, questa o quell’opera d’arte, questo o quel reperto archeologico evoca in noi di noi e non è certo un marchio che determina la nascita del sacro.

  2. Mario Cubeddu scrive:

    Gentile Giovanna, nella dichiarazione enfatica della premessa speravo passasse un po’ di ironia a proposito del fatto che molti lavori di ricerca seria in Sardegna non vengono letti, mentre si da grande spazio alle falsificazioni. Nel caso specifico richiamato dal mio articolo volevo sottolineare che un minimo di attenzione avrebbe evitato il proliferare delle “nuove” maschere, a mio avviso inventate di sana pianta. Enti pubblici e brave persone vi hanno speso mezzi ed energie solo per renderci ancora una volta ridicoli. Sono del tutto d’accordo sul fatto che non ha senso vedere le maschere tradizionali esibirsi fuori dal contesto. Provo lo stesso fastidio per le esibizioni dei ballerini dei gruppi follkloristici. Nella comunità in cui vivo, Seneghe, il ballo è vissuto con atteggiamento sacrale. Ciò non impedisce però che i suoi cultori amino girare il mondo esibendosi davanti a un pubblico. Non credo che si possa proibire per decreto.

  3. Giovanna Porcu scrive:

    Leggo volentieri la sua risposta, e aggiungo a quanto già detto, che il sacro non è dato da un marchio ma dall’autenticità che una cosa trasmessa produce in noi. Avevo colto la sua ironia e sono anche certa che i falsi, quali essi siano, non comunicano altro da falso, perché nel passaggio emotivo è la verità dell’uno che passa all’altro e perché ciò avvenga, necessitano particolari condizioni emozionali, dell’uno e dell’altro. Destano suono interiore i Mamuthones finché sono veri nell’ essenza di chi li incarna e non inquinati da sovrastrutture, destano inquietudine la Filonzana e i Merdules di Ottana, perché ancora autentici, destano bellezza i Mamutzones di Samugheo per la loro eleganza, destano suono quelli di Fonni, di Lula, desta suono il ballo di Seneghe, desta religiosa sacralità su Componitore di Oristano, desta sacralità il cavallo e si definisce sacro tutto ciò che quel suono genera nello spettatore. Giusto che il Mamuthone abbia il suo marchio come pure l’ha su Componidore ma ciò non toglie che in altri paesi dell’oristanese ci siano delle corse all’anello e ciascun paese dica che, la sua corsa all’anello più cavallo, genera sacro. Chi può dire che non è così? Un decreto? Chi può dire che solo la corsa alla stella è sacra perché c’è su Componidore capocorsa? Chi può dire che solo il Mamuthone genera sacro e le altre maschere sarde no? Quale studioso si è preso la responsabilità di affermare che solo la maschera del mamuthone è “sacra cerimonia” relegando le altre maschere sarde a banale folklore?

  4. Marcello Madau scrive:

    In Sardegna si producono di nuovo falsi oggetti culturali. Alcune delle maschere citate discendono da un falso poema. Direi di ribellarci, difendere a denti stretti la nostra tradizione, non separarla dalla scienza.
    Se il sacro è nella genesi lontana delle maschere tradizionali, cercarne la veridicità in un’emozione legata ad esso, al di fuori di una procedura scientifica laica, fa sorridere. Oggi il falso usa il bisogno di sacro e di apparire, nasce dalla pressione (spiccioli, visibilità mediatica), del mercato delle immagini popolareggianti e dell’industria del tempo libero. Non si tratta di mostrare al turista, come fanno a pagamento i Dogon del Mali, la tradizione che vuole vedere. Da noi vi è meno consapevolezza collettiva e la malizia di qualche pseudo-studioso.
    Un sistema semplice: una certificazione di qualità legata all’esistenza di procedure scientifiche nella scoperta. Non qualche testimonianza, ma la presenza di un metodo scientifico che dimostri inoppugnabilmente una tradizione con fonti autentiche ed inchiesta sul campo correttamente eseguita.
    Se manca la disponibilità del processo di una scoperta e la possibilità di ripercorrerlo/controllarlo tappa per tappa (la falsificabilità di Karl Popper), la scoperta non è tale. La certificazione potrebbe venire da una commissione di qualità con un ruolo primario di ISRE, Università e Soprintendenza, che pretenda standard qualitativi certi. Senza certificazione, la maschera ci potrà essere: ma sarà, con pieno diritto, contemporanea.

  5. Giulio Concu scrive:

    Intervengo in questo dibattito per dire che sono d’accordo in linea generale con Cubeddu sulla ASSOLUTA mancanza di veridicità storica dei carnevali sbucati fuori questi ultimi 10 anni. Il libro di Padre Turtas è inequivocabile. Resiste il diritto di chiunque a classificarli come “carnevali”, ma non certo come “Carrasecares”. Credo quindi che sia ora che certi “studiosi” che si sono letteralmente appropriati della verità sulle origini de “Su Carrasecare” dovrebbero abbassare un po’ la cresta… e consentire con umiltà a tutti di avanzare ipotesi SERIE e non basate sui bizze della mente (non ultima quella del bronzetto come demone…). Aggiungo che i mamoiadini, fra cui ho tanti amici carissimi, dovrebbero evitare di cercare nemici fuori: sono loro i primi che spesso sminuiscono le loro tradizioni. Cosa che mi fa sempre più dubitare sulla “sacralità” odierna dei riti antichi e sulla serietà con cui vengono vissute oggi le tradizioni. Diciamoci la verità, anche “su carrasecare” non è che messa in scena di qualcosa che non si sa più cosa sia, e che sempre più spesso è vissuto come marketing buono per portare soldi in paese. Che senso ha far sfilare i Mamuthones sotto il sole cocente di fine agosto? Nessuno, solo mera promozione. Certo è che molto è svilito, anche da quella istituzionalizzazione che si pretende possa salvare il salvabile.

  6. Celeste Murgia scrive:

    Trovo interessantissima la corrispondenza fra Cubeddu e Giovanna Porcu.
    Sono convinto che questo sia l’indirizzo della ricerca per la valorizzazione delle tradizioni evitando la deriva delle frivolezze, delle mode e della mondanità.

  7. Giulio Angioni scrive:

    Bene, secondo me è molto utile che queste cose si dicano, con forza, come fa Cubeddu. Con altrettanta forza io aggiungerei che questo non è un male solo sardo e non solo dei nostri tempi. Basti ricordare almeno i vari Ossian e almeno tutte le altre cose mostrate nel famoso libro sull’invenzione della tradizione messo insieme da Hobsbawm e Ranger. E a chi fa l’antropologo o etnologo o folklorista, inoltre, interessano molto anche i falsi e i falsari, a volte perfino più degli studiosi attenti al dato e all’intersoggettività dei risultati di studio. Appunto perché le bugie e le fantasie più o meno consolatorie hanno la loro potente funzione spesso negata a chi non inventa e non forza i dati.
    Tanto più che di questi tempi mi pare che sia più importante lo studio del bisogno e dei modi e conseguenze della fortuna delle archeoastronomie e delle invenzioni di “tradizioni genuine”, che ha cultori e autori ben più letti e creduti degli studiosi seri coi loro distinguo e precauzioni. Temo che siano lontani, o del tutto improbabili, i tempi in cui non siano più le fantasie tipo Atlantide sarda o da ultimo le acabbadoras a fare chiasso per lasciare l’attenzione mediatica a una divulgazione scientifica che del resto quasi non c’è qui da noi. Anche in rete ci siamo (ci siete) quasi solo noi (voi), cioè quasi solo gli Stigliz, i Madau, i Cubeddu di manifestosardo che cercano di essere seri. Ma è cosa seria anche il prevalere del cretino e la moneta falsa che scaccia quella buona.

  8. Isabella Maccioni scrive:

    Mi sembra molto riduttivo e depressivo pensare che gli unici studiosi seri in Sardegna siano quelli che scrivono sul manifesto sardo, che pare siano una manciata di soggetti, peraltro chiusi tra loro in un linguaggio tecnico e poco accessibile alla massa. Non esageriamo. Ci sono studiosi seri che sono sardi, che ricercano, studiano in ambiti diversi della scienza, nella penisola o all’estero, e pubblicano dove c’è maggior apertura, spazio e rispetto per il loro pensiero e per le loro scoperte, anch’esse serie. Forse c’è da dire che poco importa a certi seri studiosi mettere in discussione il credo in cui crede il popolo, o la scientificità o meno di una tradizione anch’essa nata come espressione del popolo. Certi seri studiosi sardi ma operanti fuori dall’isola, pare non capiscano il senso della vostra scientificità che in nome della scienza sembrerebbe voglia unicamente creare spaccature e conflitti fra le tradizioni più o meno antiche o più o meno recenti dell’isola, dividendole in vere e false, con bollino o senza bollino, che non servono di sicuro alla gente ma servono solo ai politici per vendere la propria identità nelle strade del mondo a maggior prezzo. Studiosi sardi, che scrivete sul manifestosardo forse non vi siete accorti che certe vostre affermazioni servono ancora una volta ai falsi potenti per vendere la nostra vera identità.

  9. Marco Ligas scrive:

    La signora Maccioni fa bene a non deprimersi. Questo stato d’animo non sarebbe giustificato anche se si convincesse che gli unici studiosi seri in Sardegna siano quelli che scrivono sul manifesto sardo. Sappiamo che ci sono studiosi seri sia in Sardegna sia fuori e noi non rivendichiamo certo l’esclusiva. Il credo in cui crede il popolo va senz’altro preso in considerazione ma non può essere assunto comunque come verità inconfutabile. Se la ricerca usa strumenti scientificamente attendibili è bene tener conto dei risultati che si ottengono almeno sino alla successiva falsificazione. Non sono necessari i bollini neri o rossi. E ci preoccupano tutte le manipolazioni: quelle dei falsi potenti e soprattutto quelle dei potenti veri che lavorano costantemente per far si che il credo in cui crede il popolo sia sempre funzionale al potere, anche promuovendo e cavalcando economicamente il mercato dei falsi.

  10. Isabella Maccioni scrive:

    Certo che ha ragione signor Ligas però in una ricerca seria si porta a conoscenza dell’opinione pubblica nonchè dell’intera communità scientifica gli strumenti usati, la standardizzazione del test utilizzato, le variabili a cui si è andato incontro etc etc etc nonchè gli abstract sui quali la ricerca è stata pubblicata. I bollini possono essere anche gialli e verdi, bisogna capire il senso che si vuole dare a quei bollini e a quei colori. Pensavo inoltre che quei bollini sono stati chiamati in causa da chi ha fatto la distinzione di vero o falso sulla maschera e credo che il problema non sia solo se vera o falsa una maschera ma il significato di vero e falso che si da alla maschera come simbolo. Esiste una maschera vera e una maschera falsa ma per chi studia la maschera come simbolo, la maschera è solo un simbolo che dice altro da vero o falso. Detto ciò non capisco quanto una maschera sarda creduta vera dal suo paese sia funzionale al grande potere che cavalca il mercato dei falsi.

  11. Marcello Madau scrive:

    Proprio così: il problema di alcune maschere che appaiono improvvisamente, talora appoggiate ad una poesia ritenuta antica e dai più non autentica, è che non si dà conto del metodo e degli strumenti usati per la riscoperta, se non genericamente (“ce l’hanno detto gli anziani”, “è conosciuta da tempo” etc.).
    Stabilire l’autenticità di un manufatto o di una cerimonia è un processo difficile, anche perché possiamo presupporre e a volte leggere diversi usi e significati, modificatisi e sovrappostisi nel corso dei secoli, talora dei millenni.
    La valenza simbolica è ancora un altro piano, dinamico, come per sacro e profano, dove quella che proviene dalla/dalle antichità si combina con la valenza simbolica della contemporaneità. Il valore di ciò che è creduto vero ( non è necessario che lo sia! Ma la verità è solo roba da intellettuali, o non è piuttosto un diritto alla conoscenza come bene comune?) può essere fortissimo, ed avere comunità che lo sostengono massicciamente, come per certi miracoli, santi o reliquie.
    Una maschera falsa e creduta vera è funzionale al potere che cavalca il mercato dei falsi perché oggi nel mercato del tempo libero in evoluzione il nostro ‘target’ arcaico, esotico e selvaggio funziona. E significa – assai più per chi non ha scrupoli nell’inventare che per chi cerca di usare rigore (oggi impopolare) – parcelle di consulenza dai vari enti, editoria, mass-media, turisti, riproduzioni, finanziamenti per le feste, conferenze, chiamate a pagamento per le sfilate etc.

  12. Celeste Murgia scrive:

    Gentile direttore
    alcuni giorni fa scrivevo al suo giornale dell’interesse creato sulla tradizione delle maschere sarde per l’intervento delle signore Porcu e Maccioni che a mio avviso portavano nel dibattito aria nuova. Inspiegabilmente il confronto si è arenato e le finestre si son chiuse. Ovviamente, dal mio punto di vista, non ho la pretesa di cambiare la linea del giornale oppure l’opinione dei giornalisti e dei professori, semplicemente auspicare che si riapra il dibattito affinchè si creino le condizioni per cui il lettore colga effettivamente, per quanto possibile, l’ampiezza e la valenza del fenomeno in discussione.
    Nel merito vorrei dire la mia, per esempio, ricordando quanto scrisse B. Bandinu nel libro “Lettera ad un giovane sardo” del 1976 :
    “”” La tradizione è un fare, non un subire, è un procedere, non uno stare. Non si ereditano cose morte. Si ereditano linguaggi: miti,riti, poesia, beni culturali ed artistici, costumi e valori. Queste eredità chiedono un investimento. Contano per come tu le vivi, per come tu le parli, per come tu le fai. ……….. La tradizione è per te una pratica da inventare…….. La tradizione è iscritta nel corpo dei tuoi genitori, nella trasformazione della tua casa, nella forma del territorio, nella ripetizione dei riti, nella persistenza degli oggetti artigianali.””
    Poi a pag 73 “” … le maschere … si pongono come sistemi simbolici che si confrontano con altri sistemi simbolici del nostro tempo……………E’ bene che i riti rimangano carichi del loro valore mitico, ma possono porsi anche come materiale di elaborazione teatrale……..”””””
    Indubbiamente quanto scriveva Bandinu e in consonanza con le argomentazioni delle due lettrici, mentre molto meno lo è la proposta del professor Madau. Ritenere la questione aperta è quanto più di più si possa ritener saggio. Cordialmente

  13. Marco Ligas scrive:

    Gentile signor Murgia,
    La ringrazio per la sua partecipazione al dibattito che abbiamo aperto con l’articolo di Mario Cubeddu. Credo, e Lei converrà con me, che l’aria nuova a cui si riferisce è partita proprio da quella introduzione. Piuttosto io non parlerei di aria nuova, per noi del manifesto sardo è abbastanza normale affrontare questi temi con chiarezza e senza calcolo. Per questa ragione Le dico che i confronti che sollecitiamo non li chiudiamo mai bruscamente e per di più lasciandoli senza conclusioni. Abbiamo piuttosto delle norme redazionali che prevedono non più di due commenti (effettuati da una singola persona) su ogni articolo. E’ probabile che questo sia un limite, però Le garantisco che è anche una salvezza perché molto spesso le persone amano parlarsi addosso diventando ripetitive e noiose. Naturalmente questo non è il suo caso o quello delle signore che sono intervenute nel nostro dibattito sul tema sollevato da Cubeddu. La ringrazio ancora e la saluto con cordialità.

  14. Iosto Cubeddu scrive:

    Ho l’impressione che si predica bene, ma si razzola male. E’ la solita discussione “sarda” di argomenti dove ognuno eleva il proprio campanile più alto di quello del vicino, la paura di essere messi in ombra. Ho l’impressione che la paura al confronto e poi l’invidia per non riuscire a fare, se non per intervento politico o finanziario. Se il mio “campanile” ha fondamenta profonde non devo avere paura di chi si eleva con fondamenta molto superficiali e recenti. Non apprezziamo mai ciò che viene realizzato, ma sempre critichiamo quello che gli altri fanno, è la nostra ipocrisia e ristrettezza mentale che ci porterà a vivere una condizioni e di subalternità nei confronti di chiunque si proponga come novità o riscoperta.

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