Bugie d’alta quota

5 Luglio 2011

Loris Campetti

Un colloquio sulle ragioni della protesta di popolo. E sulla violenza di un potere che cerca violenza. Revelli: «Bugie d’alta quota». I valsusini sono esasperati dalla militarizzazione del loro territorio e denunciano che tutto è cominciato proprio dall’ordine «militare» di assaltare La Maddalena.

La montagna fa da sfondo al racconto del nostro collaboratore Marco Revelli, i sentieri e i dirupi tra i boschi e i picchi sono nel dna della sua famiglia. Quasi per mano Marco mi accompagna su per la Valle di Susa dove si dipana il suo racconto di una domenica particolare, fatta di chilometri percorsi con il passo duro con gli abitanti determinati di un territorio occupato e militarizzato. La prima considerazione serve a fugare dubbi, imbrogli e false narrazioni finalizzate a scrivere la parola fine su una lotta che invece non si ferma: la Valsusa non si piega. «Anche lì, domenica, fossero arrivati i khmer rossi di Pol Pot, questo non sposterebbe di un millimetro le ragioni della popolazione contro la Tav. Che resta – ribadisce Marco – un’opera inutile, devastante per il territorio e insostenibilmente costosa. Lo dico per rispondere a chi nei giornali trionfalmente scrive che i fatti di domenica avrebbero cancellato le ragioni del popolo No-Tav».
Quel che è successo domenica era nell’aria, almeno da quando, il 27 giugno, era partito l’ordine militare di assaltare il presidio della Maddalena e «ripulirlo» da ogni critica e resistenza. Anche quella notte Marco era lì, dove le forze dell’ordine per sfregio hanno spaccato tutto, tagliato le tende, urinato e defecato sui sacchi a pelo: «Con don Ciotti, Petrini, Mercalli e tanti altri avevamo rivolto un accorato appello a non intervenire manu militari, consapevoli che lo sgombero violento di un presidio pacifico avrebbe aperto uno scenario pericoloso. Se pianti al centro di una valle che non l’accetta un fortino militare non fai che attirare un’onda di tensione e anche di violenza e ci sarà sempre chi è disposto a partire da lontano, attirato dall’odor di polvere. In una valle pacifica ma militarizzata. Per fortuna domenica non ci sono stati effetti ancor più pesanti».
Violenza focalizzata in alcuni punti, attizzata da una violenza che da anni viene esercitata su una comunità pacifica, e la rabbia di tutti: «Sono convinto che sia stato sottovalutato il grado di indignazione degli abitanti della valle. Io ero lì, ho visto l’enorme folla di 50-60 mila persone in marcia, armate solo di dignità. Considerato che la media e bassa valle conta 50 mila abitanti (e tenuto conto dell’afflusso dal resto d’Italia), ciò significa che almeno un abitante su due in corteo. Uomini e donne, vecchi e bambini, madri, figlie e nipoti, tutte le generazioni che per più di dieci anni hanno tenuto i nervi a posto di fronte a provocazioni gravi, e nonostante le loro ragioni, a difesa della loro terra, venissero regolarmente disconosciute. Sottovalutare questa rabbia di popolo ha portato a non prevedere che la valle non si sarebbe scandalizzata se qualcuno avesse provato a sfondare le barriere con il filo spinato, o a rovesciare le protezioni erette per recintare la sua terra, la sua montagna, i suoi boschi. Non si può cancellare questo sentire comune di un’intera popolazione a cui è stato sottratto con la forza un pezzo della sua terra, quelle decine di migliaia di persone non erano andate a una guerra, certo, ma neanche a una passeggiata».
Non è stata una passeggiata, e l’obiettivo dell’assedio al cantiere è stato interpretato in modi diversi. Ma «una parte di chi è salito al cantiere per assediarlo era figlio o marito di quelle madri che sfilavano un po’ più in basso o nipote di quelle nonne. Altra storia quei palombari – cinquanta? ottanta? – che si aggiravano intorno e dentro il corteo ricoperti di tecnologie e divise nere da combattimento: corpi estranei alla protesta, parlavano altre lingue, attraversavano la folla spintonando… Non era gente al servizio del territorio. Hanno provocato un moto di rigetto tra i valligiani quando hanno portato lo scontro vicino alla centrale dove erano concentrate le famiglie con i bambini, innescando un eccesso di risposta con centinaia di candelotti lacrimogeni, costringendo ad andarsene chi avrebbe voluto assediare pacificamente l’area».
Le cronache invece raccontano di feroci militanti dei centri sociali in assetto di guerra, tu li hai visti Marco? «I centri sociali erano, e certo non da ieri, parte delle masse valsusine in movimento. Domenica tutto si è svolto in uno scenario amplissimo e articolato in mezzo ai monti e ai boschi, con molti punti di concentramento e possibile contatto con la polizia. Difficile essere testimoni di tutto. Pensa che per arrivare ad un punto d’osservazione dove si potesse vedere il cantiere vero e proprio, abbiamo camminato due ore e mezza, e per venir via inseguiti dal gas abbiamo rischiato di romperci l’osso del collo correndo lungo sentieri scoscesi e pericolosi. Possdo dire tuttavia che non ho sentito critiche mirate direttamente nei loro confronti da parte della gente presente». Ma il dibattito politico e giornalistico si fissa sulla violenza, quella dei manifestanti naturalmente. Marco non riconosce questo film e precisa che «data la dimensione di uno scontro in cui è in gioco la propria terra, si può concludere che i danni sono stati relativamente lievi. Bisognerà che i decisori pubblici tengano conto anche in futuro che è da irresponsabili pensare a un’opera simile che per due decenni riempirebbe di cantieri i 50 km di lunghezza di una valle decisa a resistere. Solo l’arroganza del potere può pensare d’aver ragione di un popolo con la violenza».
Eppure temo che le parole sagge di Marco non basteranno a spazzare il campo da un dibattito malposto sulla violenza, meglio andare ancora più a fondo: «Io personalmente sono approdato alla non violenza fino a teorizzarla. Ma lo stesso Gandhi non la confondeva con l’accettazione passiva della prepotenza, diceva invece che piuttosto che chinare servilmente la testa è meglio ribellarsi. Il popolo No-Tav è sostanzialmente non violento e quel che è successo domenica non contraddice questo dato di fatto, chi lo sostiene butta benzina sul fuoco. Attenti ai predicatori della falsa non violenza a senso unico, agli aplogeti della non violenza degli altri, sono quelli a cui andava benissimo che i poliziotti urinassero e defecassero nelle tende devastate del presidio alla Maddalena e ora gridano alla rottura del patto non violento al primo sasso lanciato da una fionda. La gente della valle ha mantenuto il controllo dei mezzi e delle forme di lotta per oltre un decennio, senza un gesto grave. È un miracolo ed è un’ingiustizia che non le venga dato atto di questo atteggiamento responsabile. Devono ricordarsi tutti che quanto più si delegittima un movimento di popolo, tanto più si rischia di provocare gesti privati di fanatici e provocatori.

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