Telefonisti. La generazione usa e getta

16 Aprile 2008

TELEFONI
Roberto Loddo

Chi lavora in un call center rappresenta l’immagine disperata di una generazione, che, diversamente dalle precedenti, è segnata dalla completa incertezza del presente e dalla certezza della precarietà nel futuro. Chi lavora nei call center vive in mezzo a continui controlli di produttività, accompagnati da occasioni di lavoro poco qualificate, poco retribuite, poco stabili e poco tutelate, con ricorrenti e prolungati periodi di totale assenza di lavoro. Immagina il futuro appeso ad una cornetta telefonica e un paio di cuffie. Fa parte di una generazione sfigata, che ha visto perdere i diritti e le conquiste sociali combattute dalle battaglie dei genitori, ed è cosciente che le uniche cose che vanno al di là dei pochi soldi che riceverà, sono le incertezze, e in alcuni casi anche il mobbing. Questo lavoro nella sua immagine più infame è usurante, con rischi psicologici e fisici ancora non definiti per la salute.
Usando una metafora un po’ abusata, si può dire che anche il mondo dei call center è fatto a scale; sui singoli gradini stanno diverse tipologie di lavoratori: qualcuno un po’ più in alto, qualcun altro un po’ più in basso. Operatori, Team Leaders, SuperVisors, Back Office e CallCenter-Managers, indicano un vertice di situazioni lavorative differenti. Nei call center è definito “inbound” quell’operatore che lavora in ricezione telefonate: è il cliente a chiamare il call center, e il lavoratore si limita a rispondere alle domande o a fornire l’assistenza richiesta. Viceversa si definisce “outbound” quell’operatore che lavora sulle telefonate in uscita. E’ il call center, attraverso questo operatore, che contatta i clienti chiamandoli al telefono (soprattutto a quello di casa) per proporre offerte, prodotti o fare sondaggi e inchieste di mercato. Un azienda outbound, può scegliere come far lavorare i propri operatori in 3 differenti modalità: con un telefono e una lista cartacea di nominativi, con un telefono e un pc in cui scorrono i nominativi da contattare, oppure con un pc già programmato su una lista di chiamate da fare che partono in automatico: sarà poi l’operatore, una volta che il cliente avrà risposto, a “condurre” la conversazione con griglia di domande precostituita fornita dall’azienda. In genere anche le forme di saluto, i convenevoli, le risposte da fornire al cliente sono codificate e vengono fornite attraverso appositi manuali o corsi precedenti all’assunzione. Tra i call center inbound di Telecom, Tiscali o Sky, che applicano il contratto collettivo nazionale sulle telecomunicazioni e la minuscola azienda outbound Cagliaritana che lavora su appalti pagando lavoratori occasionali a provvigioni con un contratto a progetto, la distanza è notevole. Dai dati della Assocontact l’associazione di imprese aderente alla Confindustria, nei call center italiani lavorano circa 250 mila addetti. Di questi,170 mila, sono stati contrattualizzati. Resterebbero fuori almeno 42 mila operatori, in gran parte outbound, cui le aziende non riconoscono il diritto automatico al contratto da dipendenti in forza della Circolare Damiano che permette il contratto a progetto per questo tipo di lavoratori. La precarietà nasce da un viaggio di crudeltà che ci travolge dai primi anni 90”. Dal varo delle politiche di concertazione, dall’abolizione della scala mobile, dall’atteggiamento di tregua sociale tra governo e sindacati confederali, dai cosiddetti governi tecnici del 92” e del 93” fino ad arrivare al famigerato “pacchetto Treu”. L’approvazione del maxidecreto del governo Berlusconi per la legge delega sul lavoro: La legge 30, una mostruosità legislativa che ha come fine ultimo quello di rendere sempre più solo il lavoratore, mentre l’azienda è sempre meno responsabile, ed il padrone ha di fronte a se nuovi affari e fiumi di denaro. Reagire alla precarietà significa costruire e sviluppare un forte movimento dei precari telematici, ascoltando i bisogni di chi si trova nelle nostre stesse condizioni di vita lavorativa, senza dare risposte preconfezionate, dobbiamo identificarci collettivamente e indagare la composizione del mondo del lavoro precario. Non potremmo mai andare avanti nel percorso di lotta alla precarietà, se prima non arriviamo a capire chi siamo. Reagire alla precarietà significa anche lottare per il riconoscimento dei diritti del lavoratore a progetto, inteso come persona, portatrice di diritti, e non solo come risorsa da sfruttare. Riconquistiamo il diritto ad avere una casa fare una famiglia, lottando per la rimodulazione dei compensi che preveda buste paga non al di sotto del limite di povertà.

Una settimana fa, è nato il Blog per la rete dei precari dei call center di Cagliari, http://precarinlinea.blogspot.com/ uno spazio di dialogo, confronto e fantasia. Chiunque faccia parte di questo mondo, chiunque si senta sfruttato, o felice di lavorare a progetto, può scrivere e raccontare la sua storia. Anche chi dirige o possiede un call center, può raccontare le proprie esperienze dirigenziali, poiché il blog non è nato per contrastarli, ma per creare dialogo e confronto, alla pari, anche con loro.

3 Commenti a “Telefonisti. La generazione usa e getta”

  1. Federica Ladu scrive:

    Mai come in questo periodo il lavoro (precario o che non c’è) diventa un argomento dominante. Le sale cinematografiche hanno da poco proiettato il bel film di Virzì “Tutta la vita davanti”. Titolo ad effetto che suscita in chi almeno una volta se l’è sentito dire una rabbia incontrollata. Una fotografia a tinte forti sulla condizione di noi giovani condannati all’incertezza esistenziale, alla frustrazione e all’umiliazione di sentirsi di troppo in una società che non ci vuole. Non è bello svagliarsi alla mattina e sapere che la giornata trascorrerà all’insegna della ricerca di un lavoro che sembra diventato un miraggio o che nella migliore delle ipotesi si materializzerà sotto forma di sfruttamento regolarizzato dallo stato. A niente serve convincersi che le cose cambieranno e che prima o poi si sbarcherà il lunario portando a casa 800 euro lorde al mese. Una punizione adeguata per i politici (da destra a sinistra), potrebbe essere quella di vedere all’infinito il film di Virzì e interromperne la visione solo quando decideranno di scendere dalle loro comede poltrone di velluto per trovare delle soluzioni definitive che ci diano la possibilità di tornare a sognare e condurrre una vita dignitosa.

  2. Carta Ettore scrive:

    proprio cosi:
    “Questo lavoro nella sua immagine più infame è usurante, con rischi psicologici e fisici ancora non definiti per la salute.”

    lavoro da piu di 2 1/2 in un call center a zurigo in svizzera (sono un sardo espatriato all’estero) e potrei metterci una firma sull’articolo sopra scritto.
    É ora di cambiare mestiere….
    ciao ciao

  3. Roberto Loddo scrive:

    Cari Federica e Ettore,
    Secondo me, chi fa parte di quella categoria di strane persone che quando non lavora in un call center, passa il tempo a rispondere alle e-mail degli annunci delle agenzie interinali non riuscendo a crearsi un futuro, prima o poi dovrà prendere atto che l’alternativa a questo sistema di cose esistenti non arriverà mai, se prima non ci si identifica tra di noi, se continua a permanere l’idea che si è fortunati solo se protetti da il barone politico di turno, e se non riusciamo a capire da dove è cominciata tutta questa infernale di precarietà.

    Spero che questa mostruosità legislativa che chiamano legge30 venga abrogata, ma non sono molto ottimista sui tempi, visto che nè Berlusconi, nè l’opposizione del PD di Veltroni abrogheranno o tantomeno modificheranno questa legge.

    Secondo me, se va avanti così, e le necessità e i bisogni dei precari e delle precarie non avranno risposte politiche e culturali adeguate, qualcuno potrebbe cominciare a riflettere su forme di lotta e di autorganizzazione più dirette e radicali.

    Penso alle imponenti mobilitazioni francesi contro il contratto di primo impiego (il tanto contestato CPE) che anno obbligato il presidente della repubblica francese di alora, Jacques Chirac a ritirare il provvedimento.

    Ma Cagliari non è Parigi

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