Cile. Michelle Bachelet, quale vittoria?

23 Novembre 2013

Michelle Bachelet

Maurizio Matteuzzi

Domenica scorsa, 17 novembre, Michelle Bachelet, socialista, ex-presidente 2006-2010 e candidata alla presidenza 2014-2018, ha vinto le elezioni. Ma, in un certo senso almeno, le ha anche perse. Perché per superare finalmente i limiti di una transizione incompiuta e di una democrazia ancora di bassa intensità – a 40 anni dal golpe dell’11 settembre 1973 e a 23 anni dall’uscita del generale Pinochet dal palazzo presidenziale della Moneda, l’11 marzo 1990, per far posto al primo presidente democraticamente eletto dopo Salvador Allende, il democristiano Patricio Aylwin – avrebbe dovuto stravincerle. E subito. Invece dovrà andare al ballottaggio, sia pure da superfavorita, con la candidata di destra Evelyn Matthei.
In queste elezioni cilene il punto non era il “chi” avrebbe vinto, che era scontato da mesi e mesi, ma il “quando” e il “come”.
Non solo. Dopo il tempo dell’acquosa melassa del moderatismo ostentato nei 20 anni dei 4 presidenti di centro-sinistra (i dc Aylwin e Frei Tagle, i socialisti Lagos e la Bachelet stessa) e, in buona sostanza, anche nel quadriennio del primo e finora unico presidente di destra (l’ex o post-pinochettista Sebastián Piñera che uscirà di scena l’11 marzo prossimo), queste sono state elezioni politicamente e ideologicamente polarizzate, in cui il crinale destra-sinistra, il “noi” e il “loro”, era, se dio vuole, nettissimo senza più esaurirsi solo nel dilemma elementare del pro o contro Pinochet. Erano anche le prime elezioni in cui il voto era volontario e universale (fino al 2012 era necessario registrarsi per votare e per chi si registrava era obbligatorio) per cui il corpo elettorale era cresciuto da 8.2 a 13.5 milioni di elettori con uno massiccia presenza dei giovani, passati, quelli fra i 18 e i 35 anni, al 32% dell’elettorato rispetto al 6.5% di 4 anni fa. Tuttavia domenica sono andati a votare solo in 6.6 milioni, al di sotto del 50% (il 49.3% contro il 56% del 2009). Le elezioni più polarizzate dal plebiscito sul sì o no a Pinochet dell’88 ma anche quelle meno partecipate dall’89.
Ancora. Le elezioni sono cadute in un momento in cui la destra si dibatte in una tremenda crisi. Piñera uscirà dalla Moneda con gli indici di gradimento più bassi di tutti i presidenti che lo hanno preceduto dal ’90 (e nonostante che l’economia durante i suoi 4 anni, che sono stati anche gli anni della crisi economica globale, sia cresciuta a una media annuale del 5.5%, la disoccupazione sia diminuita a poco più del 5%, l’inflazione sia stata tenuta al 2.5%). La (rissosa) Alianza fra i due partiti storici del pinochettismo – l’estrema destra della Unión Demócrata Independiente (UDI) e la destra più moderata di Renovación Nacional (RN) – non è stata in grado di presentare una candidatura di peso, ha perso per strada le due prime scelte e alla fine ha dovuto indicare una candidata di scarso appeal, Evelyn Matthei, ex ministro del lavoro con Piñera e figlia di un generale dell’aviazione che fece parte della giunta militare con Pinochet.
OTTIMO. MA INSUFFICIENTE
Michelle Bachelet ha avuto il 46.7% dei voti, tanti ma non abbastanza per evitare il ballottaggio fissato per il 15 dicembre. E la sua coalizione – la Nueva Mayoría, in sostanza la vecchia Concertación por la Democracia, la coalizione al governo dal 1990 al 2010 centrata su socialisti, democristiani e socialdemocratici, allargata ora ai comunisti – ha vinto le elezioni parlamentari sia alla Camera sia al Senato, conquistando la maggioranza nella prima e confermandola nel secondo. Ma sarà una maggioranza non sufficiente per piegare la cavernicola destra cilena e avviare quei “passi decisivi”, quelle riforme radicali – a cominciare da una Assemblea costituente che scriva una nuova costituzione e cancelli l’obbrobrio targato Pinochet del 1980 ancora in vigore nonostante qualche emendamento- che lei ha promesso in campagna elettorale e che “il paese reclama”. O almeno la metà anti-pinochettista di un paese che rimane spaccato in due e non riconciliato, come anche le celebrazioni dei 40 anni dal golpe, l’11 settembre scorso, hanno ancora una volta evidenziato.
Una vittoria netta, indiscutibile, che non consente “una doppia lettura”, come ha detto Bachelet la notte delle elezioni quando la speranza del 50% più uno dei voti svaniva mano a mano che affluivano i risultati e nel popolo del centro-sinistra subentrava un po’ di delusione. Ma non quello tsunami elettoral-politico che i sondaggi sembravano rendere possibile e che sarebbe stato necessario, sia numericamente sia simbolicamente, per mostrare che la fase storica iniziata, nel ’73 con il golpe militare e proseguita dal ’90 a oggi con la democrazia zoppa, era finita davvero.
Bachelet ha avuto quasi il doppio dei voti di Matthei. Ma i sondaggi preconizzavano un disastro per Evelyn, un umiliante 12-14%, e invece ha avuto il 25.1%, e Michelle si è fermata un passo prima della maggioranza assoluta.
Anche la Nueva Mayoría ha avuto un risultato eccellente (e al suo interno i comunisti sono passati dai 3 deputati del 2009 a 6, con la possibilità-probabilità che nel nuovo governo ci sia un ministro del PC, 40 anni dopo). Ha confermato la maggioranza relativa in Senato: dei 20 seggi in palio domenica, sui 38 totali, ne ha vinti 12 per cui ora ha 21 senatori contro i 16 della destra (e un indipendente). Alla Camera, che doveva rinnovare tutti i 120 seggi, ha avuto 68 deputati, conquistandone 13, mentre la destra ne ha persi 12 ritrovandosi con 48 (e 4 indipendenti).
Un grande successo visto il sistema elettorale “binominale” scientificamente perverso lasciato in eredità da Pinochet – fra i tanti altri regali avvelenati e tuttora intatti. Un sistema da fare invidia al nostro Porcellum, in base a cui un partito ottiene i due seggi assegnati a ogni circoscrizione solo se arriva almeno al 66.7% dei voti, altrimenti ne prende uno solo e l’altro va al secondo partito più votato che tocchi almeno il 33.3%; un sistema che distorce volutamente, in nome della stabilità, il rapporto voti-seggi, che vuole escludere i partiti minori e favorire le due principali coalizioni condannate in pratica a un “pareggio perpetuo” o quasi. Tanto che fino a domenica scorsa, in 23 anni e 5 elezioni generali, era capitato solo 5 volte per il Senato (sulle 132 possibili) e 47 volte per la Camera (sulle 360 possibili) che una coalizione prendesse entrambi i seggi disponibili. Ebbene domenica alla Nueva Mayoría è riuscita in un colpo solo l’accoppiata in 10 circoscrizioni nel voto per la Camera e in due in quello per il Senato.
Ottimo ma insufficiente. Se i numeri saranno confermati in via definitiva, questo significa il 58% dei 120 deputati, che basterà per realizzare riforme che richiedono la maggioranza assoluta o la maggioranza qualificata del 57%, tipo quelle su fisco, lavoro, istruzione, ma non la riforma elettorale né tanto meno le riforme costituzionali che prevedono maggioranze stratosferiche, tipo due terzi, tre quinti, quattro settimi. Per quelle ci vorrebbero, stando ai numeri, almeno una decina di deputati in più. Sono gli effetti delle “leyes de amarre”, le leggi con cui Pinochet ha voluto “ancorare” il Cile democratico al Cile della (sua) dittatura, tendenzialmente per sempre. La costituzione e le leggi che definiscono il “modello” economico, politico, sociale cileno e che fanno ancora del Cile un paese post-Pinochet ma non ancora post-pinochettista, sono praticamente irriformabili.
E DOPO IL BALLOTTAGGIO…
E’ (quasi) scontato che il 15 dicembre Michelle Bachelet farà suo il ballottaggio, anche se i due candidati giunti al terzo e quarto posto – l’indipendente “progressista” Marco Enríquez-Ominami, la star delle elezioni 2009 quando ebbe il 20% dei voti, e l’indipendente populista di destra Franco Parisi -, hanno detto che non daranno nessuna indicazione di voto al 10% di elettori che ciascuno dei due ha preso domenica, e gli altri 5 candidati minori hanno poco da dire con il loro 5% complessivo. Salvo sconquassi imprevedibili e improbabili, l’11 marzo del 2014 Michelle entrerà per la seconda volta alla Moneda, da cui uscì nel 2010 acclamatissima e con un indice di gradimento superiore all’80%, se pur costretta (non per sua colpa ma per la scelta suicida della Concertación di ri-presentare il pessimo ex presidente dc Eduardo Frei Tagle come candidato) a lasciare il posto al miliardario Piñera, il “Berlusconi cileno”.
La scontro per il ballottaggio appare, prima ancora che politico, simbolico e con un tasso scenografico che non è esagerato definire scespiriano e capace di scuotere un po’ la fama (meritata) del Cile, dopo l’uscita di Pinochet dalla politica e dalla vita, come il paese politicamente più noioso dell’America Latina: due donne a confronto, entrambe figlie di generali dell’aviazione, cresciute insieme e amiche fin dall’infanzia (ma ora, sembra, non più), però il padre di Evelyn, Fernando (“lo zio Fernando” per la piccola Michelle), golpista e membro della giunta militare di Pinochet, quello di Michelle, Alberto, leale ad Allende e per questo arrestato, torturato, morto o ucciso dopo il golpe. Con il ritorno di Michelle Bachelet, che andrà ad affiancarsi all’argentina Cristina Kirchner e alla brasiliana Dilma Rousseff, saranno tre le donne contemporaneamente alla guida di un paese dell’America Latina.
Ma una cosa sarebbe stata entrare alla Moneda dopo aver vinto al primo turno e essersi trascinata dietro una maggioranza ancor più massiccia in parlamento; un’altra sarà entrarci dopo il ballottaggio, che riproporrà inevitabilmente l’immagine di un paese spaccato in due, e con le necessità di provare a negoziare con l’immarcescibile destra cilena le riforme più qualificanti.
SENZA SCAMPO
Bachelet questa volta non ha scampo. Nel primo mandato, dopo molte diffidenze iniziali, si conquistò una popolarità straordinaria per via della sua contagiosa empatia personale con la gente; per il fatto di essere la prima donna presidente, “single” con due figli piccoli al seguito ma senza un principe consorte, in un paese conservatore e “machista”; agnostica in un paese bigotto; abbastanza lontana e osteggiata dai giochi dei partiti (anche il suo) e della “política politiquera”. Ma i suoi 4 anni alla Moneda non furono tutti rose e fiori. Molti l’hanno criticata per non aver voluto o potuto forzare i limiti dell’intoccabile “modello” e del tacito binomio “amnistia-amnesia” che in buona sostanza, come nella Spagna post-franchista, ha dominato anche in Cile la transizione alla democrazia, nonostante durante il suo mandato la giustizia si sia tardivamente risvegliata e abbia spedito sotto processo o in galera qualcuno dei peggiori killer e torturatori della dittatura (ma non Pinochet, mai condannato e morto nel suo letto alla fine del 2010). Fu Bachelet che dovette affrontare nel 2006, con risposte molto deludenti e con l’immancabile uso dei carabineros, la prima grande rivolta degli studenti delle scuole secondarie – i “pingüinos” come si chiamavano per via delle divise scolastiche – contro l’orribile sistema scolastico pinochettista, il più privatizzato, costoso, classista dell’America Latina e non solo.
Nella sua seconda chance Michelle Bachelet dovrà onorare gli impegni presi in campagna elettorale. Almeno alcuni. Impegni pesanti: due “grandi riforme”, quella dell’istruzione e quella del fisco; la reintroduzione dell’aborto (almeno) terapeutico contro cui la poderosa Chiesa cattolica e la destra politica fanno blocco; il dibattito sul matrimonio gay; il “riconoscimento dei popoli indigeni” che pur essendo almeno il 10% della popolazione sono non per caso “dimenticati” dalla costituzione (il calvario dei mapuche del sud cileno, le cui terre, rivendicazioni e diritti sono stati calpestati dalle grandi transnazionali, sempre trattati dalla democrazia del centro-sinistra non meglio e repressi non meno che ai tempi di Pinochet sulla base della stessa “Legge antiterrorista” del 1984).
Dovrà impegnarsi a ristrutturare dalle fondamenta, dalle secondarie alle università (tutte privatizzate da Pinochet e con il profitto d’impresa esplicitamente iscritto fra le loro ragioni sociali), il sistema educativo “più classista e più caro” fra i 34 paesi di quell’OCSE in cui il virtuoso Cile si vanta di essere stato ammesso nel 2010, unico paese del Cono sud: in Cile il costo medio degli studi superiori è di 4000 dollari l’anno, a fronte di un introito medio mensile delle famiglie di livello più basso di 275 dollari, per cui il 70% dei nuclei famigliari cileni si indebita fino al collo e per anni con le banche per far studiare i figli. L’obiettivo dichiarato di Michelle è di arrivare a un’istruzione pubblica “universale, gratuita e di qualità”, senza più fini di lucro per scuole e università che fruiscano di fondi statali e pur nel sacro rispetto di un sistema “misto” di insegnamento, finanziata da una riforma tributaria meno sfacciatamente “business friendly” e in particolare da un innalzamento dal 20 al 25% delle imposte sulle imprese.
Se Piñera se ne va con il peggior indice di gradimento di tutti i presidenti dal ’90 lo si deve anche e soprattutto alle lotte degli studenti universitari che dal 2011 non gli hanno dato un giorno di tregua, trascinandosi dietro il consenso di una larga parte di un paese ancora terrorizzato dal “disordine”, dalle “manifestazioni di strada”, dal conflitto sociale. Non a caso 4 dei loro ex-leader sono stati eletti in carrozza deputati: l’ormai famosa e fotogenica Camila Vallejo e Karol Cariola con i comunisti, Giorgio Jackson e Gabriel Boric come indipendenti di sinistra.
Dovrà impegnarsi a una qualche forma di redistribuzione della ricchezza in un paese che è una “world class success story”, come ci viene ripetuto fino alla noia da più di 30 anni, ma che è anche e non per caso, secondo le stime ONU, uno dei più iniqui e diseguali del mondo, il paese in cui il 5% più ricco guadagna 257 volte più del 5% più povero.
Dovrà provare, e questo è l’obiettivo più difficile (e improbabile), a cancellare l’obbrobrio della costituzione del 1980, che la destra considera il pilastro intoccabile del “modello economico”. A ragione. Perché il modello economico dei famosi/famigerati Chicago Boys e la costituzione politica di Pinochet sono indissolubilmente legati e complementari. Un modello e una costituzione che garantiscono la libertà di lavoro ma non il diritto al lavoro, la libertà di insegnamento ma non il diritto allo studio. Si capisce perché Evelyn Matthei, nel suo programma, dica no e ancora no all’insegnamento gratuito e ad altre proposte “irrazionali”, soprattutto all’idea di cambiare una costituzione che è stata lo strumento ideale per costruire “un paese solido” di cui “siamo orgogliosi”.
CHE VORRÀ E POTRÀ FARE
Il Cile della socialista Michelle Bachelet, come quello dei presidenti della Concertación che l’hanno preceduto, non sarà un paese che si affianca all’ala dell’America Latina più “militante” e progressista. Non solo la destra ma anche il centro-sinistra aborre la vaghezza “populista” e conflittuale del “socialismo del XXI secolo”dei Chávez, dei Morales, dei Correa. E’ estremamente improbabile che “la presidenta” Michelle trovi la forza e la volontà di intaccare a fondo il “modello” imposto/ereditato da Pinochet. Al massimo, e più probabilmente, potrà provarsi ad accrescere il ruolo dello Stato e rafforzare, richiamandosi all’esempio dei paesi scandinavi, il misero welfare per cancellare alcune delle vecchie aberrazioni e introdurre riforme nel campo dell’istruzione, del fisco, della sanità, delle pensioni, dei diritti civili. Roba non da poco e non facile, anzi il contrario. Ma tutte riforme all’interno dell’ambito istituzionale-costituzionale vigente, e quindi inevitabilmente limitate. Il punto è, come dice Francisco Figueroa, un altro dei leader della protesta studentesca (ma lui non è stato eletto), che in Cile “la transizione finirà solo quando finirà questo modello di Stato”. Che è l’unico modello che questa costituzione consente e impone.
Dovrà stare attenta, però, perché le nuove generazioni, nate dopo il golpe e libere dai suoi traumi, ora che hanno trovato la strada non sembrano disposte a tornare indietro o ad accontentarsi di qualche maquillage di superficie. Si vedrà se “l’irruzione” dei leader studenteschi in parlamento potrà dare una spinta reale verso quei “passi decisivi” che l’evidente “malessere” del paese richiede. Qualche dubbio in proposito è lecito. Meno dubbio che se la “sinistra” Michelle Bachelet dovesse rivelarsi incapace di affrontare quei nodi, gli studenti e i settori di paese che essi sono stati capaci di tirarsi non darebbero tregua anche a lei come non l’hanno data al “destro” Sebastián Piñera. Starà a Michelle e alla sua Nueva Mayoría dimostrare che si sbaglia Melissa Sepúlveda, la nuova e altrettanto fotogenica presidente della FECH (la Federación de Estdiantes de la Universidad de Chile di cui fu leader Camila Vallejo), la “anarchica libertaria” che domenica non ha votato perché “le possibilità di cambiamento non stanno nel Congresso”
A meno che la compañera Michelle non decida di sorprendere compagni, avversari e osservatori azzardando una missione apparentemente impossibile. Ma per farlo dovrà mobilitare e smuovere il paese, oltre e più che contare sulle manovre in Congresso. Non solo quella parte di cileni che ha votato e voterà per lei (che sono non più del 25-30% dell’elettorato) ma soprattutto quella metà di cileni che domenica non è andata proprio a votare per sfiducia nella politica e nei politici, per stanchezza, per disinteresse, per disincanto.

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