Contorni: Due o tre cose sul linguaggio umano

1 Maggio 2016
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Giulio Angioni

È lunga la storia delle invasioni reciproche tra ambiti del vivere variamente individuati, variamente dislocati e variamente gerarchizzati. Invasioni che provocano reazioni uguali e contrarie: se la parola è tutto, allora tutto è tecnica, o tutto estetica. E ciò persino per deformazione professionale, per spirito di corpo. Ma è storia seria e lunga quanto la storia dell’uomo che pensa il suo vivere, lunga quanto la storia dei modi di vedere e patire le invasioni, le tirannie, le democrazie e anche le cosmologie e le somatologie del vivere umano, spesso visto vicino o lontano da ‘princìpi della natura’, natura umana (e non umana) buona o cattiva soprattutto a seconda della ‘filosofia politica’ del momento, che ha giocato sempre con dislocazioni di aspetti del vivere nella natura o nel sovrannaturale, come fanno certe teorie (e pratiche) intorno a un naturale egoismo competitivo o predatorio, all’interesse personale incoercibile o altre idee opposte come la solidarietà e il comunitarismo.

Ma l’idea infinite volte ripetuta o presupposta nella storia occidentale, e quasi solo nella storia occidentale, che la parola sia condizione di ogni pensare e quindi di ogni agire e sentire, finiti o molto diminuiti i poteri dei re la cui parola era legge e molto altro, forse ormai la si può capire e apprezzare solo in bocca a un attore e fine dicitore, dopo che però abbia chiesto scusa ai mimi, ai danzatori e a tutto il cinema muto, per limitarsi alla gente del suo mestiere.

I manuali e i trattati di linguistica o di semiologia tendono a evitare discorsi sull’origine del linguaggio, quasi ancora obbedendo a un precetto dei membri della Société de Linguistique de Paris che circa un secolo e mezzo fa, nauseati dalle stramberie immaginate per quegli inizi, ingiungeva di non trattarne più. Ma sugli inizi del linguaggio umano, a parte che qualche forma di comunicazione è propria di ogni forma di vita, Leroi-Gourhan, per esempio, propone la sensata ipotesi euristica che si può dedurre qualcosa dalle più antiche rimanenze anatomiche e soprattutto delle forme di vita umana delle età della pietra, testimoni forse di una iniziale semplicità di linguaggio quanto sono semplici quelle antichissime forme di tecnica umana.

Mentre altri continuano meno utilmente a riproporre, come fa Claude Hagège, che il linguaggio sarebbe non una ma la facoltà definitrice dell’essere umano, e che lo distingue, Mario Alinei prende in parola Leroi-Gourhan e fa un puntiglioso tentativo di ricostruzione evolutiva dei primordi del linguaggio umano attraverso un confronto deduttivo con le prime forme di tecnica umana del paleolitico. Ma, come i filosofi di fronte al problema del carattere elementare e universale dell’estetica, i linguisti non si fermano sulla nozione di universalità o onnipotenza semantica come distintiva delle lingue umane: la definiscono in un rapido prologo nel cielo dell’onnipotenza, per passare ad occuparsi d’altro meno olistico, meno impegnativo.

A parte i limiti del singolo parlante e l’irripetibile unicità e novità di ogni singolo evento o atto di parola, è più utile affermare piuttosto che negare che una caratteristica generale di tutte le lingue umane conosciute è che in una qualsiasi lingua umana si può dire qualunque cosa possa essere detta in una qualsiasi altra lingua umana, che cioè tutte le lingue umane sono strumenti equipotenti. Se succede al singolo, nessuna lingua resta mai a corto di parole. Da ciò parte in fondo anche il prologo del Vangelo di Giovanni con quell’in principio erat verbum. Giovanni infatti sta parlando della potenza creatrice del linguaggio, a parte che la pone in Dio eterno prima di tutti i possibili primordi. Anche un linguista di oggi, quando osa dirci che cos’è il linguaggio, o la parola, non usa termini tanto diversi da quelli di Giovanni. Dice però di solito che il linguaggio umano, forse senza confronti con quelli di altri esseri, ha di suo in modo esclusivo l’onnipotenza o universalità semantica.

Buon punto d’inizio di un’antropologia del linguaggio può essere assumere questa caratteristica, sovrumana rispetto ai singoli che parlano, di ogni lingua umana, forse di ogni forma di linguaggio o comunicazione umana: di non venire mai meno di fronte al compito di comunicare qualcosa, o meglio, di poterlo fare all’infinito, sia per le sue illimitate capacità produttive, sia per l’inesauribilità del dicibile.

Seguendo la didattica semplicità di Marvin Harris nel capitolo sul linguaggio del suo manuale di antropologia culturale si può dire in sintesi schematica che l’universalità semantica, o onnipotenza semantica, è il risultato di tre o quattro caratteristiche in sinergia: della produttività illimitata, cioè della possibilità di ogni lingua umana di produrre infiniti messaggi su un’infinità di assunti; della capacità di distanziamento, cioè di poter parlare di qualunque assunto anche senza stimolo diretto, fuori dal presente materiale, senza limiti di spazio e di tempo; dell’arbitrarietà, cioè di poter usare qualsiasi mezzo materiale (significante) come veicolo di significato e di senso, sebbene la nostra specie privilegi i mezzi fono-acustici e visuali nella comunicazione; della doppia o plurima articolazione, forse anch’essa da pensare come articolazione illimitata, che da poche unità minime distintive (come la trentina media di fonemi nel linguaggio parlato) ottiene molte decine di migliaia di termini (come i morfemi o parole del linguaggio parlato e scritto) che ulteriormente articolati sono potenzialmente capaci di una produttività illimitata di messaggi, di sensi, di suggestioni e molto altro, compresa la fantasia sfrenata e la bugia più ingannatrice. Perché il distanziamento è in fondo la capacità di simbolizzazione, di produrre mondi interiori non direttamente dipendenti dal mondo esterno, per cui possiamo produrre messaggi anche quando sia il mittente che il destinatario non hanno diretto contatto con le circostanze e gli eventi di cui tratta il messaggio, e anche senza interlocutore, come nello scrivere, che non sarebbe possibile senza distanziamento.

Eppure il distanziamento è anche degli animali, se l’uccello lascia il nido per cercare cibo per i suoi piccoli, ci sa tornare e sa ingannare le sue prede adescandole col rifarne i versi. Anche il distanziamento è forse nel bagaglio genetico pre-umano e l’uomo l’ha sviluppato in ciò che diciamo consapevolezza. Anche le tecniche conseguono nell’uomo dalla capacità di distanziamento, se è vero che solo l’uomo ha rimesse di attrezzi, cioè depositi di potenzialità operative materializzate in quantità così caratterizzante. Quindi anche la tecnica ‘nasce’ dalla stessa capacità di astrazione, di distanziamento, di separazione dallo stimolo immediato, oltre che dalla capacità di imitazione o di apprendimento imitativo, per cui probabilmente solo l’uomo costruisce attrezzi quando non gli servono, li programma e li costruisce in vista di usi prevedibili o solo eventualmente come possibilità eventuali.

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