Contorni. Identità (6)

1 Marzo 2015
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Giulio Angioni

Per quanto sappiamo del processo ininterrotto di ominazione, che dura da diversi milioni di anni, tutti i modi di vita ci appaiono risultato non solo di un’evoluzione bio-culturale più o meno rapida, ma anche di una commistione per contatti culturali di vario genere, dall’incontro arricchente allo scontro cruento. Il mescolamento e il sincretismo sono ‘regola’ di sterminati millenni di modi umani di vita, delle cui eccezioni qualcuno va etnograficamente ancora in cerca senza fortuna, come accadeva tra ’700 e ’800 per i “fanciulli selvaggi” alla maniera di Tarzan. Ci sono oggi come nel passato luoghi dove la mescolanza di genti e di culture è particolarmente evidente, caratterizzante, come le Americhe dalla scoperta in poi, in particolare le cosiddette Indie Occidentali; o come anche le Indie Orientali, che non sono da meno, per esempio nella loro creazione millenaria di una società, plurale anche per origini e invasioni e mescolanze, in una società di caste. Ma oggi la varietà culturale del mondo si riproduce in ogni sua parte, forse soprattutto in Occidente, meta di migrazioni planetarie, dove chiunque può constatare che, come si scrive spesso su Facebook, se il tuo Cristo è ebreo la tua democrazia è greca, se la tua scrittura è latina i tuoi numeri sono arabi. Se mai ci sono, i frutti puri impazziscono.
Non sempre l’antropologia ha saputo distinguersi dalle logiche classificatorie dominanti nel pensiero occidentale che hanno costruito e costruiscono confini culturali, fino a quasi naturalizzarli, attraverso approcci riduzionisti o decontestualizzanti. Lo stesso concetto di cultura non di rado è stato oggetto di processi di reificazione, da parte degli antropologi stessi, per poi sfuggire loro di mano e diventare strumento di distinzione o di affermazione nell’interazione fra le forze in campo. La “ragione etnologica” – come Jean-Loup Amselle (in Logiche meticce del 1999) definisce la prospettiva discontinuista che estrae, isola, seleziona e classifica individuando tipi, società, culture, etnie e ha contribuito, in particolare durante il colonialismo (ma non solo), a generare nuove forme di identità. Le monografie etnografiche che estraevano il gruppo umano oggetto di studio dal suo contesto di relazioni spazio-temporali per descrivere i suoi modi di vivere, la sua struttura socio-economica e le pratiche di culto, tracciavano di fatto confini culturali trascurando i continua socioculturali. A questa ragione etnologica Amselle oppone una “logica meticcia”, cioè un approccio continuista che accentua l’indistinzione o il sincretismo originario, o in fondo ciò che Amselle più di recente chiama connessioni, cioè “l’universalità delle culture”.
La decostruzione dei concetti di etnia, cultura e identità, o meglio lo svelamento dei processi di costruzione, oggettivazione ed essenzializzazione di tali concetti, è premessa obbligata a un approccio antropologico adeguato, oltre che per promuovere una riflessione critica sulla corrente del culturalismo, di cui è figlia la nozione di società multiculturale. Il rischio, secondo Amselle, è che si affermi e si avvalori una sorta di razzismo culturale altrettanto esclusivista e pericoloso quanto il razzismo biologico. Quanto sta avvenendo attualmente in Francia, con la politica di espulsione in massa degli zingari, comprensiva della raccolta delle impronte digitali degli espulsi, per non parlare di similari pratiche più o meno istituzionali in Italia, fa condividere la riflessione di Amselle che “Isolare una comunità sulla base di un certo numero di «differenze», conduce al suo possibile confinamento territoriale se non all’espulsione. L’attribuzione di differenze o l’etichettamento etnico – profezie autorealizzatrici – non traducono solo il riconoscimento di specificità culturali, sono anche correlativi dell’affermazione dissennata di una identità, quella dell’etnia francese. In tal modo la problematica della società multiculturale, se non si presta attenzione, conduce ad uno sviluppo separato analogo all’apartheid sudafricano, il quale a sua volta deriva in parte dall’applicazione deviata della nozione di cultura”.
É necessario esaminare forza e ambiguità delle operazioni di classificazione e le relazioni tra potere e sapere. I processi di legittimazione di politiche e pratiche gerarchizzanti si avvalgono di logiche non meticce per affermare e rafforzare unicamente logiche di dominio politico ed economico. Logiche che ritroviamo spesso anche nei gruppi assoggettati o minoritari quali forme di autodifesa collettiva, per cui si accetta e si introietta lo sguardo esterno essenzialista per rivendicare la propria diversità etnica o culturale, le cui origini vengono fatte sconfinare nei secoli e nei millenni della storia, quando non anche della preistoria, fino a presentarle come connaturate da tempo immemorabile al proprio gruppo.
L’irrigidimento delle identità e il rafforzamento dei confini culturali possono essere armi di offesa e di difesa che possono arrivare a uccidere, secondo una nota espressione di Sen. Ma l’operazione di fissare differenze culturali, celando intenzionalmente somiglianze e continuità, mira alla costruzione di un rapporto contrastivo di relazioni fra due o più gruppi, deviando di fatto l’oggetto del contendere dall’ambito dei rapporti di potere, di dominio e dipendenza/subalternità a quello più genericamente culturale o addirittura di carattere unicamente religioso. Come è stato più volte ipotizzato in diverse analisi dei Cultural Studies, a partire da Stuart Hall, l’accentuazione e la proliferazione delle differenze culturali nel mondo globalizzato attuale è funzionale all’occultamento del controllo economico di poche grandi multinazionali, un modo, fra le altre cose, per naturalizzare e stabilizzare i rapporti di potere attuali, riversando sulle diversità etniche o culturali il malessere di coloro che vengono schiacciati dall’egemonia del capitale internazionale.

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