Contorni: Scienza, tecnologia, lavoro e lavoratori

16 Aprile 2016
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Giulio Angioni

È idea vecchia forse tanto quanto ciò che chiamiamo civiltà occidentale, rafforzatasi negli ultimi secoli, che la fonte principale del progresso, della storia, del miglioramento del vivere umano, sia lo sviluppo delle conoscenze scientifiche su ciò che si dice natura, e che la produzione materiale sia un’applicazione o trasposizione di dati teorici. Da cui anche i luoghi comuni sul ruolo dirigente, eminente, di guida, o dei filosofi o degli scienziati o dei tecnologi nel complessivo processo di sviluppo storico; e i luoghi comuni correlati sull’inferiorità, dipendenza, ripetitività e non creatività della produzione materiale e dei suoi addetti diretti, iloti o schiavi o servi o garzoni o vili meccanici o villani o operai salariati.

Nell’epoca in cui il progresso delle scienze e della tecnologia è una delle molle principali dello sviluppo e potenzialmente anche del progresso sociale, si dice anche che il momento ideativo è diventato determinante di per sé solo, perché il progresso tecnico e scientifico accentua il ruolo delle componenti conoscitive e accresce il ruolo e l’importanza della componente mentale e insieme quella della comunicazione delle idee.

Non bisogna fare molti sforzi per convincersi della realtà di questo crescere dell’aspetto mentale e creativo nella produzione moderna, se vista nel suo insieme e senza tener conto delle forme di divisione del lavoro tra attività intellettuali e attività manuali mondialmente dislocate. La scienza, gli aspetti conoscitivi dell’attività umana, acquistano sempre maggior importanza e significato, e la vita pratica quotidiana diventa sempre più applicazione delle sue ‘conquiste’. La scienza in tutti i suoi sviluppi può diventare forza produttiva immediata? Certo è che le conoscenze scientifiche non sono ‘ancora’ in grado ‘da sole’ di elaborare neanche il più piccolo prodotto materiale, bensì solo quando le conoscenze scientifiche diventano anche ‘possesso’ dei produttori diretti, non solo di progettisti, tecnici e simili figure nella nostra società a forte specializzazione e divisione del lavoro, ma anche dei ‘semplici’ operai o artigiani o contadini.

L’importanza crescente della scienza ne fa una forza sociale guida. Secondo alcuni siamo passati ad un nuovo modo di produzione capitalistico, definito “capitalismo cognitivo”, che mette in valore non più la forza fisica, muscolare degli operai, ma le capacità relazionali e comunicative, per cui si sarebbe passati in questi ultimi decenni dalla messa in valore di una forza produttiva materiale a una sempre più immateriale e intellettuale. Questa sorta di smaterializzazione del lavoro avrebbe portato all’indistinzione dei luoghi della produzione e della riproduzione, all’indistinzione fra fabbrica, università e metropoli postindustriale.

Sarebbero scomparse la classe operaia e la lotta di classe, passando dalla fabbrica degli oggetti (cioè di merce materiale) alla fabbrica delle parole (cioè di merce immateriale). Non sarebbe più il lavoro a produrre i beni, ma la scienza e la tecnologia e i suoi addetti. Dunque le conoscenze e la loro comunicazione sarebbero mezzi diretti di produzione. Anche lo studente diverrebbe produttivo nell’università, e l’università si trasformerebbe nella ‘fabbrica del sapere’. Il sapere sarebbe produttivo senza più la riduzione del lavoro umano a merce, a capitale.

Si sostiene che oggi proprio il capitalismo con l’informatica valorizzerebbe l’uomo tutto intero, comprese tutte le sue capacità intellettuali, emozionali e relazionali, mutilate dal capitalismo vetero-industriale, e ridiventano utili per la produzione di quelle merci particolari che sono le informazioni. Se per certi versi la produzione postindustriale odierna è meno alienante, e se la conoscenza certo lavora più direttamente del denaro, di cui si dice, con più coscienza di parlare per metafora, che ‘lavora’ se investito, ha molte ragioni chi ribatte che le merci cognitive non si producono da sole, come nemmeno i macchinari della fabbrica, anche quando a produrli sono altri macchinari o, nel nostro caso, altre merci cognitive quali i programmi per computer. Dietro le merci, materiali o immateriali, e oggettivato in esse, c’è sempre il lavoro umano, fisico e intellettuale. La classe salariata dei lavoratori-operai non scompare, ma sono cambiati solo i luoghi e le modalità del lavoro, e dello sfruttamento dei lavoratori. E si mostra che quando il lavoro nelle fabbriche non è stato delocalizzato utilizzando operai di un altrove più povero, esso è stato frantumato, subappaltato, esternalizzato, precarizzato, allargando la fascia dei lavoratori non garantiti, spingendo i lavoratori nel lavoro nero, senza contare lo sfruttamento anche di tipo schiavistico dei migranti di oggi senza permesso di soggiorno, ultimi fra gli ultimi, anche quando lavorano nelle industrie della comunicazione, dell’informazione, del libro, dell’arte e così via.

 

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