Contro l’occupazione della Palestina

16 Ottobre 2016
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Omar Suboh
Domenica 23 ottobre alle ore 10.00 a partire da Piazza del Carmine, la pizzeria Federico Nansen, nella persona di Stefania e Maurizio, in collaborazione con la Comunità Palestinese in Sardegna, organizzano una manifestazione per ribadire il sostegno al popolo palestinese, la lotta per i suoi diritti come all’autodeterminazione; per denunciare la politica di apartheid praticata da Israele nei confronti della popolazione palestinese e contro le guerre nell’area medio orientale. Al termine della manifestazione, alle ore 13.00 si terrà un pranzo di sottoscrizione a favore dei bambini palestinesi nell’ambito del progetto: “Natale, un sorriso per la Palestina” presso la Pizzeria Federico Nansen in Corso Vittorio Emanuele II, 269. Pubblichiamo una riflessione di Omar Suboh, una breve storia dell’occupazione.

Nell’immaginario collettivo la Palestina viene generalmente rappresentata come un luogo della Storia, luogo della mente e dell’immaginario più che del reale. Piccoli o grandi eventi della sua storia sono interpretati in base a elementi simbolici e attribuiti a un carattere di “sacralità”. La “Terra Santa” per la coscienza collettiva cristiana ed ebraica. Gerusalemme “Città Santa” per i musulmani: penso al celebre versetto coranico che racconta del viaggio notturno del Profeta, compiuto durante la sua vita mortale nell’aldilà: è il luogo dove il contatto con il divino diventa intelligibile.

La Palestina è antichissima: gruppi organizzati di cacciatori raccoglitori costruiscono i primi insediamenti tra l’XI e il IX millennio a.C. e il nucleo più antico risale proprio a questo periodo, Gerico. Nel XII secolo a.C. è attestato l’arrivo dei filistei lungo tutta la costa, successivo alla conquista egiziana dell’area siro-palestinese suddivisa in 3 province di cui una è detta Canaan: quest’ultima diverrà Palestina, terra dei filistei. La ricostruzione storiografica, derivata dalla tradizione biblica, presenta i difetti di tutta la storiografia antica relativa al problema delle origini, non presta attenzione ai processi formativi, ma dà per costituita sin dall’inizio l’entità finale (in questo caso Israele), immaginando un ricambio totale della popolazione.

Verso il 1000 a.C. la Palestina è una varietà di gruppi etnici e di formazioni statali: è come un mosaico, composito e destinato ad arricchirsi nei secoli ellenistici. A partire dal III secolo d.C. registriamo una significativa infiltrazione progressiva della lingua araba accanto all’aramaico. La progressiva arabizzazione della regione procede rapidamente durante l’Impero Omayyade, la lingua diviene fattore unificante delle varie realtà del paese, acquistando maggiore importanza per via del valore religioso ad essa attribuita. Gli omayyadi cercheranno di diminuire il prestigio della Mecca a favore di Gerusalemme.

Nel X secolo d.C. un geografo arabo ci fornisce una descrizione esauriente della Palestina, intesa come “la provincia più occidentale della Siria”, e prosegue: “la Palestina è bagnata dalla pioggia e dalla rugiada, e così i suoi alberi e le terre coltivate non hanno bisogno di irrigazione artificiale; […] la Palestina è la provincia più fertile della Siria”. La documentazione storica offre un quadro edificante dell’assetto economico del paese: oltre gli agrumi, sesamo, canna da zucchero, mandorle, asparagi ecc. Il prodotto più importante che va affermandosi è l’ulivo.

Passato il periodo delle crociate, la Palestina diverrà oggetto della dominazione ottomana dal 1516 e lo rimarrà sino all’epoca del mandato britannico attraverso l’accordo Sykes-Picot del 1916, che permetterà al Regno Unito di governare la Palestina dal 1920 al 1948. Il primo punto che emerge da queste breve sintesi storica di alcuni dei principali avvenimenti della storia antica della Palestina è il quadro composito di civiltà e popolazioni che vissero nella regione e che diedero vita, attraverso ripetute fusioni, a nuove etnie, dunque l’esatto opposto di una sorta di “scontro tra civiltà” ante litteram.

Per comprendere i fatti del 1948 relativi alla nascita dello Stato di Israele, data cruciale per comprendere tutti gli eventi successivi, è necessario porre l’accento su due particolari eventi significativi: spiegare la genesi del sionismo, movimento politico-religioso nato e sviluppatosi alla fine del XIX secolo, ufficialmente come reazione all’antisemitismo dilagante in Europa; l’altro evento è la Dichiarazione di Balfour.

Il fondatore e ideologo del sionismo, Theodor Herzl sistematizza il pensiero sionista nella sua opera Lo stato degli ebrei, nel 1896. Ufficialmente si limita a richiedere la concessione in Palestina “di un focolare garantito dal diritto pubblico” per gli ebrei perseguitati in Europa, ma come uno dei primi ideologi del sionismo, Moses Hess, ha scritto già nel 1862, l’obbiettivo è a tutti gli effetti la costruzione di uno stato ebraico. Celebre rimane la formula con cui Israel Zangwill, ideologo della colonizzazione della Palestina, riassume il concetto basilare dell’idea sionista: “Una terra senza popolo, per un popolo senza terra”.

Chi parla di “affinità ideologiche” con lo Stato di Israele dovrebbe perlomeno fare riferimento al retaggio culturale colonialista e imperialista per giustificare l’occupazione di una terra come la Palestina storica, che si estende per 27.009 kmq, solo in parte abitabile a causa delle ampie zone desertiche. I palestinesi diventano ufficialmente “assenti” con la Dichiarazione Balfour, datata 2 novembre 1917.

Arthur James Balfour è il ministro degli esteri britannico: invierà al vicepresidente dell’organizzazione sionista un documento/lettera in cui affermerà testualmente l’intenzione di “favorire la realizzazione” di una ‘sede nazionale’ per il popolo ebraico. Il testo non prende in considerazione neanche lontanamente l’esistenza dei palestinesi sul territorio conteso, questi infatti scompaiono: sono detti ‘non ebrei’. Al momento della Dichiarazione Balfour il popolo ebraico raggiungeva, esagerando, 50.000 immigrati; la presenza palestinese sul territorio delle regioni divenute obiettivo dell’insediamento coloniale, era di almeno 750.000 unità, cioè 15 volte tanto.

Le operazioni contro i civili palestinesi sono condotte già prima del 15 maggio 1948. Oltre la metà della popolazione palestinese fu cacciata fuori dalla Palestina e le forze armate sioniste occuparono militarmente i territori di due dei tre settori assegnati dal Piano di Spartizione allo Stato Ebraico, attraverso la supervisione del governo britannico. Ben 750.000 furono da lì a poco considerati come apolidi, finendo per ammassarsi nei campi profughi sparsi per l’intera Palestina e nei paesi vicini, tra cui il Libano.

Chiunque voglia farsi un’idea più precisa sul terrorismo sionista è sufficiente che cerchi le immagini relative alla vita in Palestina prima dell’occupazione, penso alle immagini della scolaresca del villaggio di Zakkarya, che ritrae una intera generazione destinata al campo profughi; agli attentati sionisti alla raffineria di Haifa del 30 marzo 1947; agli attentati terroristici sionisti alla linea ferroviaria dal Cairo-Haifa e su quello sulla linea Giaffa-Haifa nel ’47, o l’attentato con autobomba a Gerusalemme nel 1948 ecc.

Basterebbe rileggere i diari di David Ben Gurion. Altro che palestinesi che hanno abbandonano il territorio dove si sarebbero stabiliti. Così, per noia, come se non avessero avuto di meglio da fare. Sulle recenti dichiarazioni del premier Netanyahu sul ruolo del muftì di Gerusalemme rimando direttamente i lettori alle smentite di alcuni docenti israeliani tra cui Dan Michman, Dina Porat e Efraim Zuroff.

Il piano di appropriazione complessiva proseguì ininterrottamente dopo il ’48, attraverso una serie di provvedimenti legislativi volti all’espropriazione sistematica della terra come la legge sulla “proprietà degli assenti ”del ’50, la legge del ‘53 detta dell’utilizzo, sino all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza durante la Guerra dei 6 Giorni, dichiarata illegale dalla risoluzione n. 242 dell’Onu e mai rispettata, la quale esige “il ritiro delle Forze armate di Israele dai Territori occupati durante il conflitto”.

I fallimenti dei negoziati hanno reso Gaza e la Cisgiordania due entità territoriali separate, rendendo i cisgiordani imprigionati tra due Stati ostili come Israele e la Giordania, e trasformando Gaza, unico accesso al mondo esterno per i palestinesi. Gaza, dopo le operazioni Piombo Fuso, Margine Protettivo ecc., ha costato la perdita di 1400 palestinesi, di cui 400 tra bambini e civili per la prima tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, come ben documentato dall’atto d’accusa redatto dal procuratore ebreo Richard Goldstone, e la seconda 2310 vittime solo a Gaza, di cui circa 500 bambini e civili.

Gaza, per usare le parole del medico norvegese Mads Gilbert, è un posto in cui “il 57% delle famiglie non ha accesso regolare al cibo” e dove “oltre il 90% dell’acqua è risultata non adatta al consumo umano”. Il tutto aggravato dagli attacchi israeliani al sistema idrico e fognario, che privano 1,2 milioni di persone anche dei servizi più elementari; alla costruzione di insediamenti dichiarati illegali dalla Comunità Internazionale in Cisgiordania (come il tentativo di annessione dell’area C, con l’entrata in possesso di 1000 acri di terra in più subito dopo la conclusione di Margine Protettivo); le continue espulsioni dei palestinesi nella valle del Giordano con la creazione di nuovi insediamenti per inglobare la regione. Eppure, rimanere aggrappati a una speranza incrollabile verso la giustizia e il futuro, e la volontà di capire gli altri, per noi palestinesi diviene il fondamento su cui costruire i ponti della tolleranza, dell’inclusione e della reciproca convivenza sulla base della comprensione e del rispetto. Tutto questo può incominciare a partire dal riconoscimento all’esistenza di tutti i palestinesi, del loro diritto al ritorno e al principio dell’autodeterminazione, almeno per tutte le generazioni future.

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