Cooperazione. Il caso Italia

16 Giugno 2011

Francesco Mattana

Concentrando la nostra attenzione su come l’Italia in particolare gestisce la politica di cooperazione internazionale, abbiamo tratto delle conclusioni realisticamente negative, come vedremo nelle pagine seguenti. I nostri interlocutori, ancora una volta, sono stati i brillanti organizzatori dell’associazione Affrica-Centro di studi africani in Sardegna. In particolare, i ringraziamenti vanno stavolta al Dr. Michele Carboni e alle D.sse Annalisa Addis, Marcella Tramatzu e Patricia Godinho Gomes. La loro passione e competenza la ritroviamo sul sito http://www.affrica.org, continuamente aggiornato

Il tema della cooperazione internazionale per lo sviluppo interessa naturalmente l’Italia in prima persona. Come si comportano al riguardo i nostri governi?
Anche in un campo delicato come la cooperazione internazionale i governi italiani mostrano il consueto pressappochismo. Pochi giorni fa l’Italia è stata estromessa dal ‘Consiglio d’amministrazione del Fondo Globale contro l’Aids, la malaria e la tubercolosi’ Ha lasciato il posto alla Francia, perché l’Italia è un debitore insolvente. Emblematico poi che questa sconfitta, questo riconoscimento d’inattività arrivi a trent’anni dalla scoperta del virus dell’Aids. Ci fa capire che di fronte a un’emergenza ancora attualissima, l’Italia rimane sonnecchiante. In particolare negli ultimi dieci anni il governo italiano ha dato il peggio di sè: nonostante le tante promesse, la realtà è che i fondi sono stati tagliati, e la cooperazione governativa sta scomparendo. Contrariamente a quel che la vulgata potrebbe pensare, in termini assoluti le cifre delle donazioni sono importanti, e molti paesi ne hanno realmente bisogno. Il guaio è che, essendo i fondi gestiti male, solo una piccola parte arriva a destinazione

Ci mostriamo lenti e inefficienti soltanto nella guerra contro l’Aids?
Siamo insolventi quasi su tutto: solo sui fondi obbligatori da dare alla comunità europea non possiamo essere insolventi, ma giusto perché non possiamo permettercelo. La commissione europea, poi, ne spende una parte in cooperazione. A partire dall’anno scorso, anche i finanziamenti alle ONG hanno subito grossissimi ritardi. C’è da dire che, sì, è vero che in passato si faceva l’errore di dare tanti soldi a pioggia, e non si controllava dove andassero poi a finire. Adesso però si fa l’errore, ancora più grave, di stringere quasi del tutto i cordoni della borsa. Vero che è censurabile l’eccesso di prodigalità senza controlli, ma è altresì condannabile il non tener fede alle proprie promesse. Ci si chiederà il perché di questa improvvisa avidità. Semplicemente, e non ci si stupisca, è perché l’argomento non ha presa sui destini elettorali dei partiti. Non avviene così in altri paesi: in Germania, come nei paesi scandinavi, se il tuo governo non rispetta gli impegni presi a livello internazionale rischi la batosta elettorale. E dovrebbe farci riflettere che pure la Spagna, la Spagna della crisi economica, non ha tagliato sulla cooperazione in tempo di crisi. Gli indignados hanno molti altri motivi per cui indignarsi, ma almeno sul tema della cooperazione internazionale non hanno di che lamentarsi col governo

In termini monetari, a quanto ammontano le nostre promesse di cooperazione?
L’obiettivo per tutti sarebbe donare lo 0.7% del PIL agli aiuti per lo sviluppo. Tendenzialmente questa percentuale è dirottata sul miliardo di persone più povero del mondo, ma ogni paese segue poi le proprie direzioni: Francia e Inghilterra, comprensibilmente, sono più attente alle loro ex colonie. Negli anni settanta si pensava che lo 0.7% del PIL sarebbe bastato, e la cifra ai tempi era ragionevole, aveva un senso. Ora il mondo è cambiato, eccome se è cambiato, però la percentuale è rimasta sempre la stessa. Non è una bella cosa che le logiche di cooperazione rimangano uguali nonostante il mondo che cambia, però sarebbe almeno sufficiente comportarsi come i paesi scandinavi, gli unici a dare lo 0.7% . L’Italia si ferma invece allo 0.15%

Ci sono delle alternative alla cooperazione per favorire lo sviluppo nei paesi africani?
La cooperazione non è l’unica via allo sviluppo, noi italiani ce l’abbiamo fatta senza cooperazione. Non bisogna però confondere lo sviluppo con la ricostruzione, come avvenne col Piano Marshall. Berlusconi e Frattini parlano di Piano Marshall per la Somalia, e ne parlano a sproposito perché i piani dello sviluppo e della ricostruzione sono piani diversi. Questa superficialità nel trattare delicate situazioni internazionali ovviamente si riverbera sul destino di questi paesi martoriati. Manca insomma la volontà politica di fare una vera cooperazione internazionale, e sarà difficile aspettarsi uno sforzo di questo tipo dal governo del ‘tira a campà’

Ci sono dei paesi in particolare verso cui abbiamo mostrato attenzione, nei decenni passati e oggi?
Fino agli anni novanta eravamo dentro alle logiche della guerra fredda, quindi sostenevamo i paesi alleati dell’America. E aiutare l’America, ca va sans dire, significa anche rendersi complici delle porcherie che eventualmente l’America combinava. Prendiamo l’esempio di una strada in Somalia realizzata col nostro contributo: ci si chiedeva il perché di una strada che era totalmente inutile, e la risposta la diede il coraggio di chi cercava la verità: quella strada era stata realizzata perché sotto erano nascosti rifiuti tossici. Fra chi cercava la verità, c’era anche Ilaria Alpi, ed è lecito sospettare che qualcuno molto in alto l’abbia voluta fare fuori per punire la sua curiosità. Mani Pulite è servito, oltre che a fare una bella pulizia in Italia, anche a fare un po’ di pulizia sulla cooperazione internazionale, scoprendo che c’era molta corruzione anche lì. Fra l’altro, a conferma del fatto che siamo il paese dell’immobilismo, abbiamo ancora una legge sulla cooperazione datata 1987. Sarà cambiato un po’ il mondo dall’ ’87 a oggi, o no?

Sembrerebbe un problema legato a una visione politica generale dell’Italia…
Ancora una volta dobbiamo tessere le lodi dei paesi scandinavi, particolarmente virtuosi anche nella cooperazione. In Danimarca esiste il Ministro per lo sviluppo e la cooperazione. In Italia non abbiamo ministeri ad hoc, abbiamo solo il direttore generale Elisabetta Belloni, che è una figura praticamente inconsistente. Ma si poteva fare anche di peggio, e infatti non ci siamo fatti scappare l’occasione: abbiamo proposto l’eurodeputato Iva Zanicchi come Commissario Parlamentare sugli aiuti allo sviluppo. L’Italia, un paese che per mesi non ha avuto un ministero dello sviluppo economico italiano, si pretende che possa occuparsi seriamente dello sviluppo africano?

Parliamo delle ONG. Se ne parla tanto, è giusto dare qualche informazione più precisa su come lavorano.
Le ONG italiane si basano molto sui fondi che il ministero dà loro. Questi fondi del ministero vanno un po’ alle ONG, un po’ ai governi, un po’ alle agenzie dell’ONU: se il ministero stanzia poco, le ONG si ritrovano con pochi fondi. Tutto ciò non è affatto una buona cosa: le ONG in Italia sono poco autonome, sono più che altro enti che realizzano progetti finanziati dal governo. Oltretutto, è scandaloso che i progetti delle ONG vengano valutati in ordine cronologico, e non di importanza: l’ONG che presenta il progetto per prima, anche se è un progetto di scarsa utilità, trova il sostegno economico del governo. Invece altre iniziative che meriterebbero più attenzione languono, e solo perché sono state presentate più tardi. La verità è che abbiamo decine di ONG che non servono a niente, non hanno professionalità, non hanno capacità. C’è una tendenza a fare ognuno la sua ONG, e questo è un male per la riuscita della cooperazione internazionale

Provate a immaginare idealmente un vostro ruolo in primo piano nella cooperazione internazionale. Quali soluzioni avreste in mente?
Le soluzioni non sono difficili da immaginare, ma ben più difficili da realizzare. Come prima mossa si dovrebbe fare un’agenzia indipendente, e non permettere che la cooperazione sia sotto l’ombrello del ministero. In secondo luogo fare una nuova legge sulla cooperazione, quella attuale è inadeguata perché è degli anni ottanta. Poi prevedere i fondi dei prossimi cinque anni, bisogna comunicare il bilancio in tempo, avere un progetto di ampio respiro temporale. E ancora, riorganizzare gli uffici già esistenti, snellendo il sistema e rendendolo più efficiente

Gli anni della Prima Repubblica li ricordiamo anche come anni di partnership molto disinvolte con governi corrotti. Nella tessitura di rapporti economici coi tiranni , siamo sempre a quei livelli, o c’è stato un cambiamento in positivo?
Le cose sono parzialmente cambiate in meglio, va detto. C’è un po’più di trasparenza nella gestione dei soldi. E’ difficile però parlare di cambio di passo rispetto alla Prima Repubblica, dal momento che l’ultimo concorso per funzionari stabili alla cooperazione e sviluppo risale addirittura all’ 89. Vennero assunti 120 dirigenti, ora ne sono rimasti 60. In più fra chi rimane, ben pochi ci credono davvero a quel che fanno. Dunque la struttura è di fatto la stessa della Prima Repubblica, e un ricambio ovviamente sarebbe più che salutare. Il fatto di essere all’interno dell’organismo dei donatori dell’OCSE permette però di darci un po’ una regolata, e di gestire il sistema degli aiuti più onestamente. Ci viene imposto ad esempio dall’OCSE di rinunciare a pratiche poco pulite come l’aiuto legato, che consisteva nell’aiutare i paesi africani ma col tramite delle grandi impresi italiane, che risultavano gli unici beneficiari economici alla fine. E’ capitato ad esempio che la FIAT, fornitrice di camion per la realizzazione di infrastrutture nei paesi africani, fosse l’unica a trarne un guadagno in termini economici, lasciando le briciole ai paesi africani. Questo comportamento è vietato dalla disciplina dell’OCSE: devono essere sempre di meno le imprese italiane, e c’è una vigilanza costante affinché questo accada.
In passato poi erano più frequenti casi di informazione poco trasparente, come riguardo alla carestia in Etiopia dal ’72 al ’74. C’era tutto l’interesse a far credere che questa carestia fosse dovuta esclusivamente alla siccità che ha devastato il paese. In verità, con un controllo più accurato, è saltato fuori che non tutta la popolazione ha subito gli stessi danni, e chi apparteneva a una classe sociale più elevata non ne ha risentito. Insomma, si fanno dei passi in avanti dal punto di vista della trasparenza informativa, e speriamo che il processo vada avanti in questo senso.
Perché si facciano dei passi in avanti, è essenziale arrivare a un cambio di rotta anche nella gestione della cooperazione decentrata. La legge 19 sulla cooperazione decentrata in Sardegna si è dimostrata un gran pasticcio: una legge che dava con grande facilità la possibilità di presentarsi come soggetti interessati a fare cooperazione. Il risultato è che in troppi, anche chi non aveva i titoli, ha inoltrato domanda, e alla fine i finanziamenti sono stati versati a progetti che non avevano nessun riscontro effettivo nel territorio

E nello specifico, riguardo alla cooperazione per lo sviluppo dei paesi del Mediterraneo?
La storia recente della cooperazione per i paesi del Mediterraneo ha visto la creazione della Partnership euromediterranea del ’95, che però non ha funzionato bene. Per rimediare alle falle di questo accordo del ’95, si è cercato di fare un passo in avanti nel 2003, con la Politica di vicinato, che riguarda anche l’est europeo ed è una politica destinata a tutti i vicini di casa dell’Europa. L’obiettivo era superare i problemi della partnership mediterranea, ma nel concreto si è creata una gran confusione fra organismi differenti al suo interno, senza ben capire a chi dovessero essere affidati i compiti. Gli stessi paesi africani non capiscono a chi rivolgersi, cosa fare: meglio fare qualcosa nell’ambito della Politica del vicinato? O meglio nell’Unione per il Mediterraneo? Mentre languono nel dubbio, il risultato è che si combina ben poco alla fine

Concludiamo col capitolo Croce Rossa Italiana, che merita un discorso a parte.
La Croce rossa italiana è un’autentica anomalia: è militarizzata, nel senso che il personale della Croce Rossa ha i gradi militari. Uno dei principi fondamentali della Croce Rossa Internazionale è invece la neutralità, occuparsi di emergenze e non fare cooperazione allo sviluppo: l’obiettivo è unicamente la risposta puntuale pronta a salvare vite umane. Come corpo militarizzato la Croce Rossa Italiana si ritrova a fare da portavoce del governo, come è accaduto per la liberazione dei prigionieri in Iraq. E’ un errore fare da altoparlante al governo, perché il rischio, concretissimo, è di essere identificati con una delle parti in conflitto: se ad esempio un contadino afgano vede un militare della Croce Rossa Italiana e lo sente chiamare tenente, è evidente che il contadino non è in grado di fare una distinzione fra soldati veri e propri e militari della Croce Rossa, e così lede anche l’incolumità di questi ultimi.
La Croce Rossa Internazionale, invece, rimane fedele all’idea di neutralità. Identificati col camice bianco, curano i feriti di entrambe le parti. Per potersi garantire accesso mantengono un altissimo grado di riservatezza. Per le ispezioni nelle carceri scendono a patti con i governi: entrano nelle carceri ma poi non dicono nulla di ciò che hanno visto, e questa è la clausola per poter entrare. E’ chiaro quindi che in più occasioni si sono trovati inattivi. Difatti le organizzazioni più battagliere come Medici senza frontiere hanno criticato questa eccessiva ‘passività’, e proprio MSF nasce per volontà di alcuni dissidenti della Croce Rossa

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