Correnti baltiche: lavorare meno, lavorare tutti

16 Aprile 2014
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Gian Nicola Marras

Lo ammetto, il titolo è volutamente provocatorio. In particolar modo in questo periodo di recessione economica in cui il lavoro diviene un bene desiderabile poiché manca. Forse proprio perché il Lavoro (maiuscolo e singolare, nella fortunata accezione di Accornero) scarseggia, il duo Renzi-Poletti prosegue in maniera indefessa l’opera di deregolamentazione della legislazione sul lavoro: nella neolingua renziana il rassicurante anglicismo si pronuncia Job Act. Il fenomeno del prestito linguistico è forse il principale elemento innovatore della retorica politica renziana, pertanto a questo provvedimento -scritto in code mixing- è affidato il presunto “riordino normativo” della disciplina giuslavoristica. (per approfondire).
Ma quella che voglio raccontare è un’altra storia, aliena dal contesto dell’eurozona mediterranea, una storia svedese. Ogni volta che si parla del compromesso svedese si ricordano le peculiarità del progetto politico socialdemocratico del ‘900: coniugare capitalismo e socialismo in un progetto politico-economico nazionale (Folkhem) era ancora realtà fino alla fine degli anni ’80. Pur riuscendo a resistere più a lungo dei laburisti inglesi, col passare degli anni anche i socialdemocratici svedesi hanno finito col conformarsi ad una linea politica in difesa del primato del mercato. Non a caso infatti, imprese multinazionali nate in Svezia come la Electrolux, hanno iniziato a contemplare sempre più la strategia aziendale delle delocalizzazione degli impianti produttivi (transplant). Tuttavia è facile riscontrare come a seguito della fine del socialismo reale e della politica globale dei due blocchi, i paesi europei hanno abbracciato modelli economici di purissima derivazione neoliberista. Nonostante questa significativa battuta d’arresto per il socialismo nordico, gli svedesi non hanno mai perduto la loro naturale inclinazione a ben oculate sperimentazioni in materia di politiche del lavoro.
Göteborg, la seconda città della Svezia, è governata da una coalizione di sinistra all’interno della quale vi sono il Partito Socialdemocratico (SAP), il Miljöpartiet (Partito dei Verdi) e il Partito della Sinistra (Vansterpartiet). Proprio un esponente del Vansterpartiet, il vicesindaco Mats Pilhem avanza la proposta della sperimentazione della giornata lavorativa di 6 ore nel settore pubblico, per un totale di 30 ore settimanali, senza riduzione di paga percependo quindi lo stipendio pieno come se lavorassero 8 ore. Questa scelta del dipartimento amministrativo di Göteborg è dettata da una specifica finalità: favorire la riduzione delle assenze per malattia al fine di migliorare la produttività dei dipendenti.
Intervistato dal giornale svedese The Local Pilhem ha dichiarato: “Crediamo sia arrivato il momento di mettere in pratica questo esperimento. Confronteremo le performance dei lavoratori ad orario ridotto con quelle dei dipendenti a orario standard e ritmi tradizionali, verificando gli effetti sia sulla loro salute che sulla produttività”.
Solo una parte dei dipendenti pubblici di Göteborg beneficerà dell’orario lavorativo ridotto. Altri impiegati continueranno a seguire turni standard di 8 ore. Entrambi i gruppi riceveranno la medesima paga. Il vicesindaco ha affermato di confidare nel fatto “che i dipendenti pubblici lavorando meno si assentino meno e possano essere fisicamente e mentalmente più efficienti”.
La proposta non è andata particolarmente a genio all’opposizione, i moderati-liberisti di Moderaterna, i quali hanno condannato la riduzione dell’orario di lavoro giudicando la proposta come un’espediente populista in vista delle prossime elezioni del 2015.
Subito pronta la replica di Pilhem : “Abbiamo lavorato a lungo su questo proposta, non si tratta affatto di una ricerca di consensi elettorali. Il vero problema è che i nostri critici per ragioni ideologiche sono sempre stati contrari alla riduzione dell’orario di lavoro”.
Pilhem crede che l’inefficienza dei lavoratori si manifesta principalmente quando i turni di lavoro sono troppo lunghi. La proposta non è un’iniziativa recente bensì è stata sperimentata tempo fa nel settore dell’assistenza agli anziani e in una fabbrica automobilistica.
La riduzione dell’orario di lavoro rientra tra le iniziative politiche fondamentali del partito femminista della Svezia, ed è stata a lungo oggetto di discussione anche per i Verdi e per il Partito della Sinistra. La tesi delle 30 ore ha riscosso un certo interesse anche all’interno dello schieramento socialdemocratico. L’idea della riduzione dell’orario di lavoro non è una prerogativa svedese, ma una battaglia portata avanti da numerose forze di sinistra in tutta Europa, in particolar modo dai teorici operaisti italiani.
Il motto “lavorare meno, lavorare tutti” in voga a partire dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, a detta di numerosi studiosi, sarebbe ancora sostenibile nell’attuale fase di recessione economica, con disoccupazione e precarietà galoppanti.
La letteratura di riferimento è abbastanza vasta, autori francesi come Guy Aznar, (autore del volume Lavorare meno per lavorare tutti) ricalca le proposte precedentemente elaborate dal filosofo André Gorz (Autore di Miserie del presente, ricchezze del possibile).
Anche per la filosofa del lavoro e teorica sindacale Dominique Méda (autrice di Società senza lavoro), si sofferma sulle nuove assunte dal lavoro nell’età della globalizzazione, analizzando il rapporto tra precarietà e i bisogni di autonomia fuori dal lavoro. Méda, come Dahrendorf, rielabora la dicotomia marxista tra “regno della necessità” e “regno della libertà”, e crede che il compito della politica e delle imprese sia rintracciare la nuova composizione degli effettivi bisogni dei cittadini-lavoratori. La riduzione del tempo di lavoro è vista dall’autrice come uno dei tanti tasselli che dovranno costituire la progettazione di innovativi scenari: nuovi lavori e rinnovati spazi di libertà individuale.
Nel contesto italiano è difficile che possano arrivare risposte in questa direzione. Teoricamente l’eventuale riduzione dell’orario di lavoro potrebbe favorire un’importante spinta verso una ripartizione della produzione tra i precari e i disoccupati. Governo e parti sociali di comune accordo negli anni hanno progressivamente proposto e avallato leggi che vanno nella direzione diametralmente opposta (Legge Fornero). Muovendosi sulla falsa riga della proposta Sacconi, il Job Act renziano precarizza ulteriormente il lavoro e incentiva le ore di lavoro straordinario, allungando quindi il tempo di lavoro nell’arco di una vita.
Andando al di là di un giudizio complessivo sull’eventuale attendibilità o fallacia della proposta della riduzione dell’orario di lavoro, credo sia importante incentivare il dibattito attorno alla mutazione che ha investito le socialdemocrazie riformiste europee. Sconfitte negli ultimi 25 anni, non sono riuscite a trovare soluzioni sostenibili perché i gruppi di potere che incarnavano principi socialdemocratici, hanno volutamente dismesso la bussola identitaria socialista per navigare nella storia. La navigazione per la socialdemocrazia europea è proseguita a destra in direzione del pensiero liberista. Come ha correttamente evidenziato il sociologo Immanuel Wallerstein, la socialdemocrazia è ancora sostenibile come scelta o orientamento intellettuale, certo non come modello politico-economico. (Per approfondire). Cosa resta quindi della socialdemocrazia?
Gli impianti istituzionali della sicurezza sociale, il welfare e le politiche pubbliche per come le abbiamo conosciute fino a pochi anni fa e che stiamo perdendo giorno dopo giorno a causa delle sciagurate politiche di austerity.
Anche la sinistra italiana ha rivolto un certo interesse verso le peculiarità del modello svedese. Nel 1983, Pietro Ingrao, all’epoca presidente del Centro Riforma dello Stato, promosse un ciclo di conferenze sul caso svedese. Considerando i limiti e le possibilità della politica economica internazionale, veniva avanzata la necessità di riaffermare il primato dei bisogni sociali rispetto alle scelte derivanti da approcci neoliberisti e conservatori. Vennero suggerite nuove forme di governo dell’economia, politiche anticrisi, democrazia industriale, politiche dell’occupazione e dell’intervento pubblico nel Mercato del lavoro, oltre che politiche di sicurezza sociale. Il suo intervento finale intitolato “Le ragioni dell’interesse per il caso svedese nella sinistra italiana”, denota come da parte dell’allora sinistra ingraiana esistesse una sensibilità verso il principio della democrazia economica svedese. Riporto testualmente:
“Mi sembra molto importante che si sia allargato il quadro di conoscenza del caso svedese e che si possano così meglio ricavare dalle interessanti esperienze del movimento operaio svedese elementi di riflessione. Già in un’altra occasione il CRS aveva richiamato l’attenzione sulla proposta svedese di “democrazia economica”[…] l’esperienza svedese ci dà l’immagine di una sinistra di governo che non si ferma alla congiuntura che non mette in soffitta appena andata al governo, il programma di trasformazione sociale, giungendo a nuove forme di assetto proprietario in campo industriale, per realizzare ciò che Korpi chiama appunto uno spostamento delle risorse di potere. Contro una linea tutta reaganiana e thatcheriana che punta invece alla riprivatizzazione […] Per le sinistre si tratterà quindi di ricombinare proprietà sociali di capitale industriale, politiche di intervento dello stato e forme di controllo sindacale.” (Da P. Ingrao, Le ragioni dell’interesse per il caso svedese nella sinistra italiana, p.207-208).
I socialisti svedesi gettarono le basi per una politica attiva del mercato del lavoro destinata a svilupparsi in maniera autonoma, che fosse in grado di controllare i flussi di credito, facendo affidamento su politiche di sovranità monetaria, e reggendo l’urto (per quanto possibile) ai condizionamenti della globalizzazione economica.
Il modello socialdemocratico svedese, sospeso tra utopia e realtà ha subito la più forte e decisa battuta d’arresto il 28 febbraio 1986 giorno dell’assassinio di Olof Palme. Il massimo esponente storico del socialismo democratico scandinavo. Quali sono oggi le alternative?
Due gruppi di potere in Europa in quegli anni ’70/’80 si preoccuparono di elaborare un’alternativa politico-economica alla globalizzazione neoliberista che si dipanò dai laboratori della scuola economica di Chicago. Le due le strade percorribili, quella socialdemocratico-sindacale Palme-Brandt-Kreisky, quella eurocomunista Berlinguer-Carrillo-Marchais, sfortunatamente non sono riuscite a convertirsi in progetti politici alternativi, sostenibili e di massa per la sinistra europea del XXI secolo. Esiste oggi il modo di costruire una nuova e ben definita identità alla sinistra europea?
In continuità ideologica con quei percorsi politici, Alexis Tsipras ha ricordato (Discorso pronunciato il 24 settembre 2013, al Kreisky Forum di Vienna;) : “Se i socialdemocratici avessero raccolto l’eredità di statisti come Bruno Kreisky, Willy Brandt o Olof Palme, l’Europa non si sarebbe trasformata nel deserto neoliberale che è diventata oggi”.

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