Dai nuraghi ai giudicati alla Silicon Valley senza soluzione di continuità

30 Aprile 2007

di Franco Tronci

Esiste un ostacolo alla nostra capacità di produrre un’analisi seria del nostro passato, della situazione attuale dell’Isola, delle sue prospettive future. Esso è rappresentato dal prevalere, su tutto, della questione identitaria.
Viviamo in un’epoca di ‘sardismo pervasivo e trasversale’ a tutte le correnti di pensiero critico, alle ideologie, alle metodologie di ricerca scientifica, alle capacità di programmazione dei soggetti politici.
Lo stesso modo di auto-rappresentarci caratterizza sia le manifestazioni dell’estremismo nazionalistico e indipendentista sia gli atteggiamenti del sardismo moderato. Nessun sardo che si rispetti se la sente di commettere il peccato di lesa patria.
Dall’Italia, dall’Europa, dal mondo gli ‘amici della Sardegna’ incoraggiano questa nostra propensione al narcisismo culturale. Gastronomia, bellezza del paesaggio, novità letterarie e musicali vengono assimilate e tutte ricondotte ad un forte sentimento identitario.
Le capacità di giudizio oggettivo e disinteressato, capace cioè di frapporre la giusta distanza critica fra sé e l’oggetto del giudizio risulta perciò offuscata dall’eccesso di autostima. E ciò vale per il passato come per il presente..
Un passaggio originale della preistoria, la civiltà dei nuraghi, è stato sottratto alle corrette coordinate storiche per divenire, una volta e per sempre, testimone di una vocazione “resistenziale” nei confronti del resto del mondo; una originale esperienza di autogoverno dell’Isola, quella dei Giudicati, viene ridotta, nelle favole e nei racconti storico-letterari, a manifestazione di un medioevo fantastico, linguisticamente utile alla promozione pubblicitaria, e viene proiettata, senza soluzione di continuità, sulla prima.
E ciò senza una precisa ricostruzione e valutazione delle distanze storiche, senza colmare in vuoti prodotti dalle lunghe dominazioni con il silenzio della sottomissione e l’assenza della scrittura.
Tutte forme, queste, di semplificazione che rendono difficile da comprendere ed accettare sia i difetti antichi quali la frammentazione, linguistica, economica e sociale, sia gli effetti dei mancati appuntamenti con la storia: la filosofia dell’Illuminismo, la rivoluzione industriale, la modernità, la complessa arte e letteratura del Novecento più problematico.
Pronti, semmai, i sardi ad esaltare come epiche vicende fatti storici minori (vedasi sa die de sa Sardigna) o, persino, autolesivi, come il massacro dei francesi al Margine Rosso e la conservazione del trono all’imbelle dinastia dei Savoia. Pronti a confondere la secolare arretratezza con un segno forte di identità come il riconoscimento (peraltro molto chiacchierato) della ‘pastoralità’ barbaricina nel patrimonio dell’Unesco. O a mancare di curiosità sugli usi futuri dei beni rivendicati allo stato centrale (basi militari dismesse, beni minerari inutilizzati, tutela del paesaggio e del territorio, ecc) stretti nella morsa fra sindaci cementificatori e sostenitori del turismo a cinque stelle gestito dalle multinazionali.
Bolle speculative e fortunate operazioni finanziarie fanno favoleggiare una classe dirigente locale, sempre meno credibile e sempre più lontana dai problemi reali dei sardi, di una Silicon Valley nostrana frutto della ormai più dimessa, rispetto a quindici anni fa, nuova economia e in perfetta sintonia con la produzione di pecorino sardo, di malloreddus, di cannonau.
Nel frattempo, una fortunata stagione e una piccola ma diffusa editoria fanno proliferare i testi di storia locale ma soprattutto la scrittura di romanzi gialli e neri che ben si coniugano con la ricostruzione storico-fantastica che tanto contribuisce ad alimentare un’idea di Sardegna come terra di favole e misteri, disperatamente alla ricerca di una lingua unitaria, magari artificiale (limba de mesania), che, accomunata ad un uso sapiente del pastiche linguistico può anche servire, in tempi di mediocre letteratura, a far vincere i premi letterari nazionali.
Il discorso potrebbe continuare. Quanto detto basti ad indicare che un impegno serio sull’identità è ancora da costruire. E senza sconti per nessuno.

Franco Tronci

2 Commenti a “Dai nuraghi ai giudicati alla Silicon Valley senza soluzione di continuità”

  1. Antonio Buluggiu scrive:

    Riscontro nel pezzo di Franco Tronci, una serie di contraddizioni tipiche di chi affronta un problema presupponendone gia la soluzione ma che, nello svolgimento del tema, si trova a dover fare affermazioni in conflitto le une con le altre finendo così per affastellare tesi ed antitesi.
    Inizia con l’affermare :” Esiste un ostacolo alla nostra capacità di produrre un’analisi seria del nostro passato, della situazione attuale dell’Isola, delle sue prospettive future. Esso è rappresentato dal prevalere, su tutto, della questione identitaria. “ E chiude con” Quanto detto basti ad indicare che un impegno serio sull’identità è ancora da costruire. E senza sconti per nessuno.”
    Prima si dice che l’impegno identitario è un ostacolo per produrre una analisi seria e poi si afferma che è necessario costruire un impegno serio sull’identità.
    Ancora: mentre da una parte si parla di eccesso di autostima, poco più sotto si parla di silenzio da sottomissione; come possa avere un eccesso di autostima un sottomesso non riesco proprio a capirlo. Insomma mi sembra, come minimo male argomentata la tesi dell’ostacolo identitario .
    Vogliamo ragionarne davvero e senza blocchi ideologici del problema (?) identitario?
    Innanzi tutto esso è un problema o una risorsa? Ragionare sulle proprie radici sgombrando il campo da autofustigazioni e da stereotipi importati non può essere il mezzo per scoprire le reali dimensioni della questione sarda? Quali sono le responsabilità di una classe dirigente provincialmente cosmopolita che trova la propria legittimazione nella fuga dai problemi reali e nelle intellettualistiche elucubrazioni sulle sorti non del pane carasau ma della bistecca alla fiorentina?
    Vogliamo davvero ragionare su questi e su altri temi…..senza fare sconti per nessuno?
    Antonio Buluggiu

  2. mimmo bua scrive:

    Credo proprio che sia necessario ed opportuno “ragionarne”. E se si riuscisse a ragionarne “serenamente” sarebbe anche meglio.
    Un primo passo (che poi non sarebbe propriamente il primo) sarebbe quello di rifiutare decisamente gli stereotipi e gli schemi semplificatori o superficiali: fra questi c’è sicuramente quello, abbastanza diffuso, di un “identitarismo” di maniera, o di facciata, che scantona spesso nel “folklorico” e, diciamolo pure, nel ridicolo. O nel comico, inteso come genere letterario. E che può anche sfociare nel tragi-comico. O nel grottesco, come nel caso dei leghisti lombardo-veneti.
    Ma c’è anche un anti-identitarismo superficiale e di maniera, che credo sia una variante di quel “cosmopolitismo di maniera” di cui ragionava Antonio Gramsci proprio a proposito di un modo imbelle e insufficiente di contrastare e superare il “provincialismo”, o “felibrismo” che dir si voglia. Questa posizione tende a considerare ogni e qualsiasi tentativo di approfondire il tema della “identità” un falso problema, un tema arretrato, storicamente superato, una questione senza capo né coda. Può anche essere un punto di vista che si ancora al “dogma” della storia come lotta di classi e non anche come lotta di popoli, di etnie e persino di nazioni oppresse o negate o assoggettate o in vario modo “osteggiate”. o “impedite” o “tagliate”.
    Non a caso questo tema o problema o questione torna a galla, spesso in maniera drammatica e anche tragica, in una fase di globalizzazione meccanicistica, fortemente condizionata e per molti versi dominata dall’ideologia uniformatrice (e devastante) del “mercato globale”, che prevale o sembra ancora prevalere sul tema della effetttiva unificazione della specie umana e sull’effettiva realizzazione di quell’ideale di internazionalismo che credo debba essere considerato valore o motivo integrante del movimento socialista e comunista (nel senso originario dell’aspirazione al comunitarismo, all’eguaglianza e alla reale fratellanza fra tutti i popoli che compongono la variegata unicità della specie umana ). L’inter-nazionalismo, mi pare, tiene conto dell’esistenza di “nazioni” e popoli, oltre che di classi, e nella sua valenza filosofica o ideologica mi pare attribuisse al proletariato il compito storico di realizzare la cooperazione fra nazioni e popoli di tutto il mondo, superando la preminenza data dal ceto mercantilistico (la borghesia) alla concorrenza e alla competizione sfrenata, cioè al colonialismo e alla guerra, cioè alla prevaricazione e allo sfruttamento, alla sottomissione e tendenzialmente alla vera e propria negazione o cancellazione delle nazioni più deboli da parte di quelle più forti (le “grandi potenze”, appunto).
    Si può anche arroccarsi sul punto di vista che la Sardegna, pur essendo stata (e considerata) un “regno” per 400 o 500 anni è definitivamente diventata una “regione” dell’Italia a partire dall’unificazione tardo.ottocentesca. Per cui parlare di “nazione mancata” avrebbe soltanto un senso di sterile nostalgia antistorica. Salvo poi continuare a sentirsi e a considerarsi “sardo” prima ancora che “italiano” ogni volta che ti interrogano sulla tua reale “identità” o appartenenza nazionale.
    Personalmente sono fra quelli che ancora si sentono sardi prima che italiani: e se mi capita di vergognarmi del dover ammettere di essere “italiano”, mai mi è accaduto di vergognarmi di essere, di sentirmi e di dichiararmi sardo. Questo sentimento o modo di sentirsi può legittimare un’aspirazione ad essere cittadino di una nazione indipendente?
    La mia semplice risposta è sì. Soprattutto da quando il “berlusconismo” ha soppiantato il “democristianismo” e il “mussolinismo” e sembra caratterizzare per lo meno la metà degli italiani. O quando mi ricordo che, in realtà, l’Italia è di fatto una nazione dominata dalla criminalità organizzata nelle storiche cosche chiamate mafia, camorra e ndrangheta, di cui la maggior parte della classe politica è nient’altro che una variegata cosca di fiancheggiatori e collusi. O se non sono collusi praticano esattamente lo stesso criterio di governo del territorio: chiamando il “pizzo” “mazzetta” o “tangente”. Prova a sottrarre la voce “clientelismo” al ceto politico italiano e alla sua prassi consolidata e chiediti cosa resta. In questo senso, sono loro i veri “qualunquisti”: Dal punto di vista della semantica infatti, “politicante” e “qualunquista” dovrebbero essere sinonimi.
    E’ forse un caso che la magistratura venga sotanzialmente impedita e incatenata (o falcidiata) ogni volta che tenta di rendere giuridicamente o giudiziariamente “ufficiale” la collusione e il malaffare? Cioè ogni volta che tenta, ad esempio, di dare una risposta giuridicamente acclarata al noto “segreto di Pulcinella”: riproposto dal “Caimano” di Nanni Moretti: come ha fatto l’attuale “Puzzone” (per riesumare un termine caro a Carlo Emilio Gadda) a diventare l’uomo più ricco, potente e acclamato d’Italia, ovverossia il Boss dei boss?
    So bene che la storia e la politica non si possono fare a partire dal sentimento: E tuttavia non mi pare del tutto peregrino chiedersi, razionalmente, cioè “ragionando”, su cosa si basa o si fonda un sentimento, soprattutto se si può dire diffuso e collettivo. Infine mi pare che la formazione, l’attuazione e la sopravvivenza di una nazione (grande o piccola che sia, se non addirittura minuscola) abbia sempre avuto a che fare più con una “aspirazione” collettiva (e profonda) che non con la teoria che solo successivamente la razionalizza. E allora mi chiedo: esiste o no, resiste o no, questa aspirazione nel minuscolo ma esistente popolo sardo? O è solo una ideologia consolatoria e velleitaria da attribuire a quell’ibrido ceto chiamato piccola-borghesia? o è soltanto un vezzo tardo romantico di una minoranza del suo striminzito ceto intellettuale o intellettualizzato?
    Se davvero, come sostiene Franco, “Viviamo in un’epoca di ‘sardismo pervasivo e trasversale’ a tutte le correnti di pensiero critico, alle ideologie, alle metodologie di ricerca scientifica, alle capacità di programmazione dei soggetti politici”, vuol dire che il problema sussiste e che ancora non può dirsi risolto, cioè “tolto”.

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