Desaparecidos ante litteram

1 Novembre 2012
Mario Cubeddu
La storia sarda è stata tante cose. Importa ricordare che è stata anche il “laboratorio di storia coloniale” di cui parlarono John Day e Maurice Aymard e la cartina di tornasole di tanti paradossi della storia italiana.  La Sardegna ha vissuto per un secolo sotto il dominio della dinastia dei Savoia, che sarebbe stata allo stesso tempo carnefice di tanti giovani amanti della libertà e levatrice del Regno d’Italia, realizzando una unità e un’indipendenza che costituivano la meta agognata di una nazione desiderosa di esistere e contare nel mondo. Della sua nascita avrebbero goduto parte degli italiani, ne avrebbero fatto le spese libici, eritrei ed abissini.
La Sardegna fu anche essa messa in mezzo dalla storia. Strappata a se stessa e all’area politico-culturale a cui le sue classi dirigenti avevano per secoli fatto riferimento, la Spagna, viene di nuovo proiettata nel mondo italiano con l’assegnazione del Regno di Sardegna ai Savoia. Sono movimenti spasmodici determinati da un potere esterno, coloniale si dice in genere, se in altre realtà capita di parlare  di queste cose. Quando la Sardegna cerca di tornare a esistere come realtà politica fondata sulla sua storia, ha di fronte a sé a negare le sue libertà politiche gli stessi Savoia che costruiranno il Regno d’Italia. Saranno per molto tempo i persecutori della libertà e del progresso dei sardi. Uno degli episodi più importanti e meno conosciuti è costituito dalla congiura di Palabanda.  Cosa è successo nell’autunno del 1812 a Cagliari?
Anticipando la Restaurazione, i moti carbonari, i decabristi, in contemporanea con la Costituzione di Cadice, decine di sardi pagano con  la morte o il carcere il desiderio di libertà e di indipendenza politica. Nell’ottobre del 1812 la Sardegna conosce una situazione drammatica che sembra più la norma che l’eccezione: carestia e fame associate a dominio politico arbitrario e a subalternità servile delle classi dirigenti locali. Un gruppo tipicamente “carbonaro” di persone generose, intellettuali, artigiani, operai, decide di tentare il tutto per tutto e di dare l’assalto al re che, guarda caso, ma non si tratta di una coincidenza fortuita, si trovano in casa in uno dei momenti più drammatici della loro storia per miseria e degrado sociale e umano.
Saranno traditi, naturalmente, e finiranno sulla forca o nelle terribili prigioni di allora. Su questi fatti, sui corpi devastati e offesi come monito, sui decenni di galera, sull’esclusione dalla vita pubblica, sulla persecuzione quotidiana sino alla cancellazione dalla vita civica e dalla condizione umana, non ci sono dubbi. I documenti parlano chiaro. Perché allora i Martiri di Palabanda non hanno una via che li ricordi, non hanno piazze, cippi, lapidi, targhe, allori, obelischi, statue, monumenti che ricordino il sacrificio di tante persone? Possono esserci tante risposte. Ma non sarà semplicemente perché sono i vinti di una storia ignorata e negata? Gran parte dei monumenti elevati dai fascisti hanno trovato convinta ospitalità anche una volta finito il fascismo da parte dell’Italia democratica. E’ bastato eliminare i fasci littori, a volte non si è fatto neanche quello. In questi giorni cade anche l’anniversario dei novanta anni dalla Marcia su Roma, il 28 ottobre 1922. Un’altra pagina terribile della storia della Sardegna che ignorava il fascismo e lo dovette subire come prodotto importato dalla penisola.
Le figlie di Giovanni Maria Angioy, eroe della storia sarda, protagonista del secolo della libertà, chiesero di cambiare cognome perché quello del padre era stato condannato dai signori dell’isola e la vergognosa damnatio memoriae si era incisa nelle loro povere anime sino a sentire di essere nate da lui. I discendenti dell’avvocato Salvatore Cadeddu, il personaggio più cosciente, colto e coraggioso tra i congiurati di Palabanda, hanno dei problemi nel rielaborare la memoria del loro antenato. I discendenti degli eroi della libertà sarda sono come i figli dei desaparecidos: prelevati dai loro aguzzini dalla famiglia e dall’ambiente in cui erano nati, furono educati a cancellare le loro origini e a vergognarsi del loro passato. Questo è il più importante risultato a cui il potere aspira: cancellare la memoria, imporre un pensiero e un punto di vista forgiato da chi domina. Apparentemente senza  bisogno di costrizione.

2 Commenti a “Desaparecidos ante litteram”

  1. Giacomo Oggiano scrive:

    I martiri carbonari in Europa sono ovunque, ma la storia, purtroppo, la fanno i vincitori.Se a Napoli strade e monumenti ricordano Sanfelice e Caracciolo (fatto appendere da Nelson al pennone per conto dei Borboni), è perché i Borboni sono stati sconfitti. A Torino, invece, non vengono ricordati tutti i carbonari trucidati nel 1821 dalle truppe austriache per conto di V.Emanuele I. Si sa, i Savoia, per le repressioni impegnative, si rivolgevano a boia stranieri. Per fortuna (ma spero per volere politico) una delle strade più importanti della mia città è intitolata a G.M. Angioy e nel centro storico una strada è intitolata a Mundula; non ci sono strade intitolate a V. Emanuele I. Angioy , Cilocco, Mundula e poi Cadeddu e i “carbonari” di Palabanda stanno a dimostrare che la Sardegna era Europa, magari periferia, ma come in tutta l’Europa vi avevano fatto breccia le idee della rivoluzione francese e bene sarebbe ricordare chi è morto per esse. Ma noi preferiamo ricordare “sa die”: una jacquerie antipiemontese organizzata dai peggiori nobilastri locali in difesa dei loro privilegi. Gente che, una volta ristabiliti i privilegi spagnoleschi, è diventata più realista del re nella repressione contro gli angioiani (vedi il Pitzolo). Allora la storia (storiografia), è bene che, innanzitutto, sia ricostruita senza i filtri ideologici del solito anticolonialismo piagnone. Altrimenti il Pitzolo, da boia, rischia di diventare eroe solo perché cagliaritano.

  2. Mario Cubeddu scrive:

    Mi chiedo: ma alla giornata del 28 aprile 1794 a Cagliari avranno partecipato anche i giacobini, o sono rimasti a guardare? E’ certo che i piemontesi non vennero cacciati solo da Cagliari. Anche qualcuno che stava a Oristano fu costretto a imbarcarsi. Ci fu un morto, mi sembra. C’è qualcosa di antipatico per il nostro spirito tollerante nel prenderersela con una popolazione intera in cui potevano esserci buoni e cattivi, ma l’atteggiamento dei piemontesi nei confronti dei sardi era molto spesso razzista e offensivo. Si presentavano con la brutalità delle truppe di occupazione, con i dragoni mandati a forza ad abitare nelle case di chi non aveva pagato lo starello di grano al feudatario. I vari passaggi delle rivoluzioni sono pieni di contraddizioni, credo sia il percorso a contare, il significato storico complessivo. Mi piace l’immagine presentata dal Manno nella “Storia moderna”. Lui che era tutt’altro che simpatizzante di Angioy dice che, mentre i nobili di Cagliari facevano corona al Vicerè Balbiano che veniva costretto ad imbarcarsi, “mentre rendeansi al Vicerè gli ultimi inchini, a pochi passi da lui si menasse in giro da moltissimi festanti la danza sardesca, entro le mura stesse della darsena nella quale egli andava a prendere imbarco.” Le stesse cose fanno le folle a Parigi nei giorni della Rivoluzione, perchè svilirle a jacqueries? Che se poi di sollevazioni di contadini immiseriti ne avessimo avute di più, non sarebbe stato neanche male.

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