Una dittatura da morire

16 Ottobre 2009

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Il nostro collaboratore, Pier Luigi Carta è all’estero per lavoro. Ci manda l’articolo che pubblichiamo.
Pier Luigi Carta

La popolazione della Guinea, antica colonia francese, che ha celebrato il due ottobre i suoi cinquantun anni di indipendenza, figura ancora tra le nazioni più povere del pianeta. Anche se l’ex-colonia é un paese naturalmente ricco, é chiamata infatti le château d’eau – il castello d’acqua – dell’Africa dell’Ovest, i suoi abitanti non hanno accesso all’acqua potabile e ciò è la causa di un’emergenza sanitaria piuttosto grave. Il suo suolo costituisce una riserva importante di bauxite, di ferro, di minerali rari e di oro, ma la sua economia stagna per mancanza di mezzi economici e di formazione professionale più o meno qualificata. Dopo l’indipendenza, inaugurata con l’espressione negativa al referendum gollista del 28 settembre 1958, Sekou Touré ha regnato sul paese come capo assoluto per 25 anni consecutivi. Nel 1984 dopo la sua morte, Lansanna Conté prese il potere con un colpo di stato e anch’esso si mise alla guida del paese con modalità autocratiche. A volte la storia é destinata a ripetersi, e ventiquattro anni dopo l’autocrate muore lasciando un tiepido ricordo di lui e un giovane ardito militare attua un putsch per sovvertire il precedente regime. Siamo nel 2008, ed ecco che Moussa Dadis Camara installandosi al potere promette di mettere fine alla corruzione che annichilisce le potenzialità della nazione. Il report pubblicato da Transparency International quest’anno non é certo confortante per quanto riguarda i passi in avanti in tema di corruzione, le modalità stanno cambiando ma i danni restano alti: le tangenti versate nelle tasche dei politici e dei funzionari ammontano 40 miliardi di dollari all’anno nei soli paesi in via di sviluppo, costituendo un costo del 10% sui progetti in cantiere. Secondo l’economista malinese Karamoko Kanné l’opinione pubblica africana si sta sensibilizzando al fenomeno e sono finiti i tempi dei capibastone che si battono contro la corruzione per divenire essi stessi corrotti e corruttori una volta accomodati in poltrona; insomma sono finiti i tempi di Mobutu e di Abacha. Eppure tale Dadis Camara, un altro padre della patria, li ricorda parecchio, soprattutto per la violenza di cui si è reso capace nell’affrontare il dissenso al suo governo. Lunedì 28 settembre Conakry, anniversario del NO al referendum, si sono svolte manifestazioni di piazza per dire NO a Dadis. I manifestanti, sotto la guida dei capipartito d’opposizione – Forum delle Forze vive della Guinea FFVG – hanno tentato di impedire la candidatura del capo della giunta Camara alle presidenziali del 31 gennaio 2010. Il comandante Moussa Tiégboro Camara, ministro incaricato alla lotta antidroga e al banditismo armato ha tentato di impedire l’accesso dei manifestanti allo stadio, sotto la pioggia autunnale e stretti nella morsa di una marea umana la squadra di militari governativi –berretti rossi– sparavano colpi in aria per allontanare la folla. Verso le undici di mattina dopo una telefonata del capo della giunta al ministro, il suo ufficiale di campo e capo della guardia Aboubacar –Toumba- Diakité decide di passare alle maniere forti. Secondo i manifestanti infatti è stato lui a dar l’ordine di far fuoco causando dozzine di morti e migliaia di feriti; i giorni seguenti è stata denunciata la scomparsa di 157 persone, non è ancora possibile accertare la loro morte perché i militari sono stati visti portar via i cadaveri dallo stadio e solo pochi corpi sono stati resi per i riconoscimenti. Le dichiarazioni ufficiali di Dadis Camara annunciano che son solo 12 le vittime provocate dagli spari, le altre morti non sono da imputare ai militari ma ai movimenti violenti della folla e ad autouccisioni. L’Organizzazione guineana di Difesa dei Diritti dell’uomo ha stimato che più di 157 persone sono state uccise e 1200 ferite, non si contano gli stupri e altri tipi di violenza; a tale numero si avvicina anche il rapporto delle Nazioni Unite. Dalle confessioni di un militare del Bata, il battaglione delle truppe aeroportuali, emerge che la situazione sul campo era disperata, egli conferma il numero dei morti, tra i 160 e i 180 e racconta che si trattava di uccidere o di essere uccisi, perché o si ubbidiva agli ordini o si sarebbe subito il fuoco degli ufficiali; inoltre i ranghi erano fuori controllo e i soldati si sono prodigati in efferati atti di violenza, soprattutto sulle donne che come è usuale hanno subito le brutalità peggiori. Sono state appunto le aggressioni ai danni delle donne che hanno traumatizzato particolarmente i cittadini, tali atti ad ogni modo inumani hanno suscitato una profonda repulsione. L’opposizione intanto sembra maggiormente convinta a voler eliminare politicamente Dadis, le fonti diplomatiche africane lasciano intendere che tali violenze imperdonabili hanno affossato la sua reputazione all’estero. La sua giunta non ha consentito l’accesso allo stadio 28-settembre alla Croce Rossa dopo il dramma, ha minacciato i funzionari delle ONG e i giornalisti guineani, ci sono troppi testimoni e telecamere che hanno ripreso il massacro, e anche molte lingue dell’esercito stesso non hanno taciuto. La sua politica etnocentrica e l’aver probabilmente pestato troppo a fondo i piedi di qualche esponente di gruppi d’interessi forti, sta costando caro al comandante, che non può far altro che stare ad aspettare la sentenza delle Nazioni Unite e dell’UA. Già lo scorso luglio Human Right Watch aveva denunciato la giunta per la violazione dei diritti umani, l’armata infatti non si lesinava nulla: arresti e detenzioni arbitrarie, restrizioni alle attività politiche, azioni criminali impunite perpetrate dai soldati e appelli continui alla giustizia popolare. La peggior colpa da imputarle rimane, secondo le ONG e gli organi di controllo, il non aver lavorato per organizzare le già promesse elezioni democratiche libere. Karel de Gucht, il Commissario europeo incaricato allo sviluppo e agli aiuti umanitari ha dichiarato mercoledì a Addis Abeba, che Dadis Camara, dovrà essere giudicato per i crimini contro l’umanità a lui imputati.

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