Dibattito. Cognizione di causa

16 Febbraio 2008

Giulio Carlo ArganMarcello Madau

La grande manifestazione del 20 ottobre è ancora lì a pretendere un rapido ricambio a sinistra: ma il vero mutamento andrebbe cercato nei programmi, nella capacità di rappresentare esigenze, sentimenti, passioni e ideali. Forse sono le idee i nuovi latitanti della questione sarda e meridionale, scomparse nel cabotaggio politico fra segreterie, commissioni, vecchi e nuovi trasformismi. Una classe dirigente di sinistra senza idee nuove, senza la spinta al cambiamento di sé e della società, è destinata a sparire.
Oggi la sinistra alternativa, di classe, che pratica il riformismo senza abbandonare la tensione (perché mai dovremmo farlo!) al mutamento rivoluzionario, deve esprimere programmi degni della sua storia: per i beni culturali c’è da chiedersi che fine abbia fatto il lungo e sofferto processo che nel secondo Novecento aveva formato una grande tradizione di pensiero, quantunque di dominante matrice idealistica, con personalità eminenti in tutti i settori, da quelli artistici e architettonici a quelli archeologici alle tradizioni popolari: basterebbe ricordare, fra i tanti, Ernesto De Martino, Giulio Carlo Argan, Ranuccio Bianchi Bandinelli.
E’ faticoso trovare questa traccia nelle pratiche politiche; reperire l’esistenza della semplice e lineare convinzione che la storia non sia privatizzabile, ciò che conduce al riconoscimento della natura pubblica di beni culturali.
Sappiamo che un monumento o un reperto diventano ‘beni culturali’ nel momento in cui, superando un’originaria dimensione di appartenenza, si pongono come segno storico ed antropologico disponibile a tutti, verso il quale tutti hanno uguale diritto di sapere. Per garantire tale diritto ed eguaglianza, scritti nella Carta Costituzionale, dovrà essere lo Stato a definire regole e sistemi omogenei su tutto il territorio; con Regioni impegnate a rivendicare una partecipazione, più che una sostituzione allo Stato, a costruire un sistema allargato di protezione e responsabilità di un patrimonio immenso e reticolare, altrimenti a rischio di sopravvivenza.
Da dieci anni, a partire da Ministri dei Beni culturali di sinistra, si è però aperta anche la strada della vendita dei beni culturali, dell’indebolimento del sistema della tutela sia nella strutturazione territoriale che nei profili professionali richiesti (minore qualificazione, minore capacità di governo della tutela), usufruendo del precariato ma non riconoscendo le professioni dei relativi saperi: in una parola, sfruttamento. Parallelamente, la ‘fabbrica dei saperi universitari’ è in una profonda crisi qualitativa.
Particolare sviluppo ha avuto negli ultimi decenni il tema della valorizzazione dei beni culturali e del loro uso economico, grazie alla crescente esigenza di sapere ed all’espansione dell’industria del tempo libero. Nel termine valorizzazione si celano concezioni assai diverse: per estremi, da quella che la vede come aggiunta di effetti economici alla fruizione di un sito a quella che pensa utile un sito solo se in grado di produrre effetti economici.
Una posizione di sinistra coerente deve aver chiaro che un bene culturale ha valore in sé e va tutelato a prescindere dagli utili finanziari che può procurare e per la sua spinta liberatoria: la cultura produce su persone e società effetti benefici che non si misurano con il denaro.
Un programma di sinistra perseguirà linee di sviluppo economico legato alla cultura non dimenticando mai la centralità della tutela, i valori di conservazione, conoscenza, disponibilità pubblica e comune del bene. E, più ancora del vincolo che rende giuridicamente di tutti il ‘bene culturale’, sono accessibilità e partecipazione cosciente che lo fanno diventare pienamente pubblico e comune, ‘democratizzandolo’.
***
Temi politicamente ‘caldi’ e non confinati in ambiti accademici, come mostra il percorso di recente assai accidentato delle politiche regionali. Oggi sui beni culturali si opera assai di più che nelle precedenti esperienze di governo, ma la traccia appare meno lucida ed incisiva che nella pianificazione paesaggistica, pur non esente da critiche (come per la tassa sul lusso, dove la nostra posizione, da sinistra, non era evidentemente infondata). Resta la sensazione che i beni culturali, finalmente tema all’avanguardia della politica, siano considerati come parti pregiate costiere, ovvero – lo si coglie nella stessa ‘legge sulla cultura’ – si tenda a privilegiare le aree e i monumenti forti. Logico innescare il volano del turismo culturale, ma il versante della tutela viene a scoprirsi, perché la rete del paesaggio culturale sardo è di oltre ventimila monumenti, non certo tutti di ‘rarità e pregio’ secondo l’individuazione estetizzante e antiquaria di quella legge Bottai, tuttora attiva negli apparati giuridici. Intanto, il passaggio di competenze sembra allontanarsi (a meno che, in un futuro governato dalla destra, una parte del PD sardo non si allei, per ottenerlo, con la Lega Nord e Tremonti), l’Agenzia dei Beni Culturali, catapultata nella ‘Finanziaria’, è affondata con voto segreto. Da ultimo, il TAR censura la Regione su Tuvixeddu con gravi motivazioni, con l’idea che l’azione regionale fosse mirata ad affermare progettualità emerse a FestArch (di fatto non poco impattanti con la natura della straordinaria necropoli di Karali fondata da Cartagine). Ma su Tuvixeddu – su cui resta prioritaria l’esigenza di un vincolo integrale – rimandiamo al Redazionale.
Nella gestione dei siti è giusto migliorare l’oggi precario sistema, in pesante debito di qualità e forza, l’esigenza della qualificazione di cooperative e società che gestiscono l’ampio campo dei beni culturali (monumentali, librari, etc.), nate talora da clientele locali e strangolate in alcuni casi nell’evoluzione d’impresa da un soffocante controllo delle Soprintendenze (in certe realtà non si osa neppure fare un depliant senza l’ok del funzionario statale); ma con i previsti 8 centri e gestore unico si rischia di costruire un sistema bloccato, dove gruppi di potere esterni interverrebbero nel momento giusto e a definite condizioni di gara non certo per contribuire solidaristicamente alla crescita del cognitariato sardo, ma per conquistare il grande e ambito affare dell’industria del tempo libero in Sardegna (la copertura di qualche consulente sardo si trova sempre). Più efficienza? L’efficienza si misura solo con aziende dai grandi nomi e bilanci, o con gruppi, qualificati, radicati nei luoghi? Bisogna evitare di buttare il lavoro, talora pluridecennale, di chi ha in ogni caso reso possibile l’apertura e la visita di molte eccellenze monumentali.
In tutto questo, la non risolta tensione fra competenze regionali e competenze statali produce effetti negativi, ricorrenti rischi di costituzionalità e debolezze nelle procedure. Vi è una linea che unisce il bando per la vendita dei siti minerari all’individuazione di centri di importanza che tagliano le reti culturali, all’idea di un soggetto unico di gestione: si legge una concezione centralista, un privilegiare il momento dell’economico a quello della tutela della rete, con l’insofferenza a tempi e ai modi delle regole democratiche tipiche di un antropologia imprenditoriale, che, per quanto illuminata, tende a scambiare il sistema territorio con il sistema impresa. Commettendo, forse per fiducia illimitata di consenso, gravi errori. L’attenzione su tali temi è importante per tutta la sinistra: la sfida che ci pone l’immenso patrimonio culturale sardo (e meridionale) è quella di costruire modelli adeguati, nuovi e allargati, di tutela e valorizzazione, puntando sulla gestione reticolare dal basso sulla base di norme prioritariamente indicate dallo Stato. Il prezioso lavoro cognitivo della Sardegna va riconosciuto nelle professionalità esistenti, riqualificato dove necessario, legato a standard qualitativi e all’osservanza delle norme nazionali della tutela. Sarebbe errato, con la bandiera del ‘passaggio di competenze e titolarità’, portare lo Stato all’abdicazione dei suoi precisi doveri costituzionali, sostituendo a quelli vecchi nuovi centralismi e autonome burocrazie.

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