Difendere la legalità, difendere il lavoro

16 Marzo 2010

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Marco Ligas

L’imbarbarimento della politica ci rende ripetitivi, ma non possiamo non sottolineare come gli scenari della crisi che il paese attraversa siano carichi di pericoli che minacciano la vita democratica. Non c’è retorica in questa affermazione, e non ci sono falsi allarmismi. Nella gazzarra che questo governo sta creando è persino difficile orientarsi e capire quali siano le emergenze più gravi: se la messa in mora delle regole della convivenza accompagnata da un attacco ossessivo contro la magistratura, o l’assenza del lavoro con l’impoverimento di milioni di famiglie, o il riaffermarsi della difesa della razza col rifiuto dei migranti esteso persino ai loro bambini che frequentano le nostre scuole mentre continua lo smantellamento del sistema formativo, o la corruzione dilagante. Qualunque sia la priorità che viene data a questi aspetti, è evidente come l’attuale classe dirigente stia demolendo il sistema di valori conquistati con la nascita della Repubblica.

In Sardegna non siamo estranei a questi processi. L’insularità continua ad essere solo un aspetto geografico che non favorisce alcun intervento delle istituzioni finalizzato alla riduzione del divario con le aree più sviluppate del paese; al contrario  ne accentua la dipendenza e le relazioni tra Stato e Regione sono sempre paragonabili a quelle che esistono tra la terra madre e la colonia. Alcuni aspetti ci confermano queste affermazioni. Partiamo ancora dal lavoro. Tutte le fabbriche (o quasi) costruite a partire dagli ’60 o hanno interrotto le attività produttive o si accingono a farlo. Gli effetti di queste scelte sciagurate li capiscono soprattutto i diretti interessati, i lavoratori e le loro famiglie che li vivono sulla propria pelle. La sola prospettiva che rimane loro è la lotta, spesso disperata, perché non venga a mancare il lavoro; si incatenano ai cancelli delle fabbriche o salgono sulla cima dei campanili per comunicare a tutti che non possono vivere da disoccupati. Spesso ricevono la solidarietà dei cittadini ma questa non basta perché le aziende hanno deciso in maniera unilaterale di trasferire la produzione altrove dove i costi del lavoro sono più convenienti. Iniziano così trattative estenuanti (si aprono i tavoli, così si dice) tra rappresentanze sindacali, azienda e istituzioni pubbliche. Nella migliore delle ipotesi questi incontri producono rinvii che logorano chi ha bisogno di soluzioni immediate.

Intanto aumentano coloro che sostengono l’inopportunità di un intervento pubblico teso alla prosecuzione di un’attività produttiva che non ha (si dice) futuro. Se vera questa affermazione bisogna sottoscriverla e trarne le conseguenze. Talvolta però si parla di attività senza futuro anche quando le aziende ricavano profitti (Unilever), il fatto è che altrove ne ricaverebbero di più cospicui. Ecco, qui si pone un interrogativo molto importante: quali rapporti (e vincoli) devono esistere tra un’azienda che riceve il denaro pubblico e l’istituzione che la sovvenziona? L’interrogativo è legittimo dal momento che è da supporre che la sovvenzione sia finalizzata all’avvio di un’attività produttiva che promuova al tempo stesso l’occupazione e il superamento di una condizione di arretratezza del territorio. Sinora l’assenza di una progettualità e di vincoli che avessero  queste caratteristiche ha favorito un grande disordine, lo spreco di risorse pubbliche, le speculazioni sul territorio e gli interventi irrazionali che hanno accentuato dipendenza e disoccupazione. E la fase attuale, con un governo sempre più coinvolto in attività irregolari, non lascia intravedere una svolta nella politica della Regione. Non è un caso che il settore dei lavori pubblici continui ad essere una fonte di speculazioni che vede la nostra isola sempre esposta all’arroganza dei più forti. Le imprese locali contestano la Protezione civile per gli scippi subiti nell’assegnazione dei lavori pubblici, i progetti di alcune infrastrutture non vengono realizzati e i finanziamenti approvati indirizzati altrove, si interviene sul territorio con la stessa ispirazione speculativa usata nel passato, non vengono tutelati neanche i siti archeologici di valore mondiale. Insomma la nostra Regione è soltanto un orpello di un potere nazionale che si manifesta a tutti i livelli.

C’è però un altro interrogativo che non bisogna accantonare: che cosa fare quando un’attività produttiva è davvero senza futuro? (E quando è senza futuro?). Da anni sosteniamo la necessità di uno sviluppo diverso dell’economia sarda, con al centro l’ambiente e le energie pulite. Ma intanto non si può dare una risposta convincente senza partire dall’esigenza di garantire un lavoro a chi lo perde. Verosimilmente saranno necessarie sia la disponibilità dei lavoratori alla mobilità sia un cambio di indirizzo nella scelta dei settori produttivi alternativi. Servono studi, ricerche sulle nuove attività, ma non si parte da zero perché già sulle fonti alternative dell’energia esistono progetti che offrono la massima credibilità. Occorre anche un cambio di mentalità, una svolta, da parte di tutti, a cominciare dalle organizzazioni sindacali e dalle forze politiche, spesso molto lente nell’interpretare i cambiamenti sociali. E poiché il passaggio da un’attività ad un’altra (tutta da costruire) non può essere contemporaneo occorre garantire ai lavoratori gli ammortizzatori sociali di cui hanno bisogno. E battersi perché questo avvenga anche se, proprio in queste settimane, sono state assunte due gravi decisioni destinate a creare ulteriori difficoltà ai lavoratori isolani. Riguardano la bocciatura dell’estensione temporale della cassa integrazione a favore dei lavoratori disoccupati e la liquidazione di fatto dell’articolo18 dello statuto dei lavoratori.

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