Dizionario gramsciano

16 Luglio 2011

Giulio Angioni

Introducendo Dizionario gramsciano 1926-1937 (Roma, Carocci, 2009, pp. 918, euro 85), i curatori Guido Liguori e Pasquale Voza si dicono convinti che i testi gramsciani carcerari dal 1926 al 1937, cioè i Quaderni del carcere e le Lettere dal carcere, “e la loro storia, il metodo ‘analogico’ seguito da Gramsci, lo spirito di ricerca e di dialogicità che li caratterizza, la peculiare “multiversità” del linguaggio dell’autore e persino l’ingente ed eterogenea mole interpretativa prodotta fino a oggi rendano tutt’altro che agevole al lettore comune, e in buona parte anche allo studioso, la comprensione del significato o della possibile gamma di significati delle ‘parole di Gramsci’”. E dunque si sono posti “l’obiettivo di ricostruire e presentare al lettore, in termini il più possibile accessibili, il significato dei lemmi, delle espressioni, dei concetti gramsciani” (p. 5). Cioè di parole chiave ancora necessarie a chi, come Gramsci, si ripropone di comprendere e agire per trasformare la realtà: 629 voci elaborate in un lessico da un’accolta mondiale di specialisti scelti, e non solo nella International Gramsci Society, oggi più che mai attenti al lascito gramsciano.
Gramsci, né puro teorico nel suo pensiero carcerario né puro politico nella sua azione politica precedente, ha vissuto con lucidità progettuale la scoperta moderna che i modi di vivere e il senso che si dà al mondo sono un costrutto umano variabile, necessario sempre ma non una volta per tutte. Tutto però era da ripensare, dopo l’imprevista presa del potere nell’ottobre russo, che fu, secondo una sua espressione, una “rivoluzione contro Il Capitale”. Ossia, una rivoluzione non nei paesi europei a capitalismo maturo, dove era attesa secondo certi marxismi con visioni meccanicistiche del divenire storico, ma nella grande arretrata periferia russa.
Una sorpresa che Gramsci, soprattutto in carcere, cerca di spiegare come dovuta al controllo egemonico della borghesia in Occidente, cioè alla capacità (prima di tutto intellettuale e morale) delle classi dirigenti di controllare il pensare e il sentire delle masse lavoratrici euro-americane. Le quali per Gramsci possono sì arrivare alla rivoluzione anticapitalista, ma per gradi e per progetto egemonico, con strategie e tattiche di lunga durata, con una lunga guerra di posizione e soprattutto dopo e come conseguenza di una riforma intellettuale e morale che contrasti l’egemonia culturale della borghesia col suo formidabile dispiegamento di capacità di consenso, oggi ancora più potente ed efficace. Ma allora bisognava pur fare di necessità virtù, dato che cosa fatta capo ha, e fare anche altrove “come in Russia”. Sicché oggi, a cose fatte, il senso comune potrebbe aggiungere che la gatta frettolosa fece i gattini ciechi, o che nel Novecento, una volta tanto a livello planetario, fu messo il carro davanti ai buoi.
Ma Gramsci costretto in carcere ha avuto modo di esercitare le sue eccezionali capacità intellettuali per capire. Il Dizionario è una ordinata ponderosa interpretazione del pensiero gramsciano, sempre così aperto, mobile e antidogmatico, ottenuta selezionandone le componenti, ordinandole, ponendole in gerarchia plausibile, anche escludendo, citando le due grandi edizioni italiane dei Quaderni, Togliatti-Platone e Gerratana, facendo sistematici rimandi al termine di ognuno dei 629 lemmi, e soprattutto attenendosi all’osservazione dello stesso Gramsci che “nella decifrazione di ‘una concezione del mondo’ non ‘esposta sistematicamente’, ‘la ricerca del leit motiv, del ritmo del pensiero in sviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati’”(Q. 16, 2, 1840-2, p. 6).
Mi limito, quasi per competenza, a un cenno sulla voce folklore, che avrei ben visto preceduta da una voce filosofia spontanea insieme e dopo filosofia, filosofia classica tedesca, filosofia della praxis, filosofia speculativa, filosofo e filosofo democratico.
Gramsci che pensa il folklore è consapevole dell’operazione epistemologica che sta compiendo, ampliando, aggiornando e precisando, per cui il folklore è posto nel punto focale della sua visione generale delle cose umane e nel punto nodale delle sue preoccupazioni di uomo politico, quando in carcere decide di dedicare tanta parte delle sue riflessioni alla cultura delle classi popolari, cioè al folklore inteso però come “studio delle concezioni del mondo e della vita delle classi strumentali e subalterne”, e dunque come “cosa molto seria e da prendere sul serio”, ribadisce sei anni dopo in seconda stesura, nel ‘35, al Quaderno 27 intitolato Osservazioni sul “folclore”.
Il suo anche qui è un acume eccezionale, se è eccezionale, nella storia del pensiero anche riformatore e rivoluzionario moderno, tenere in conto la vita dei più diretti interessati al mutamento, cioè degli strumentali e subalterni, non solo nelle loro reali condizioni di strumentalità e subordinazione, ma anche nelle loro concezioni, sentimenti e risentimenti comunque espressi o repressi o trasformati dal dominio, come per esempio nelle concezioni salvifiche religiose o nel canto popolare dei ceti e popoli oppressi. Gramsci si concentra, come di somma importanza, su qualcosa di trascurato anche quando lo si voglia sfruttare o mutare rovesciando la prassi sociale: sullo studio dei modi, delle concezioni e delle espressioni della vita delle “classi strumentali e subalterne”, prevedendo anche confronti storicizzanti e generalizzanti magari estesi a tutte le “società finora esistite”; nonché confronto attenti ai contenuti e alle caratteristiche delle concezioni del mondo e della vita delle classi strumentali e subalterne rispetto ai contenuti e alle caratteristiche delle concezioni delle classi egemoni, nelle varie condizioni storiche. Ma senza pretese e sbrigatività giacobine e senza un’oncia di buonismo paternalistico, come spesso è accaduto a chi si è fatto paladino di umili e diseredati, piuttosto con rigore scientifico dando e chiedendo la parola, come hanno ben capito e apprezzato in tutto il mondo, tra gli altri, i cultori dei cultural, subaltern e postcolonial studies.

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